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La guerra “sdogana” spese e industrie militari come “motori di sviluppo”

Indubbiamente la guerra in corso in Europa e il clima di militarismo che si respira a pieni polmoni ha fatto saltare tutti i freni inibitori. Complice poi la crisi delle forniture nelle industrie e le incertezze dovute al boom dell’inflazione, stanno avendo vita facile coloro che spingono sul keynesismo militare, cioè una ingente spesa pubblica in materia di armamenti e di tutta la filiera ad essa collegata, inclusa la ricerca e sviluppo.

Insomma la guerra in corso è il carpe diem di tutto il complesso militare-industriale per ipotecare con il proprio peso l’economia e gli assetti produttivi/tecnologici del prossimo futuro.

Una emblematica intervista su Il Sole 24 Ore dell’ammiraglio Bisceglia, direttore dell’Occar (l’organizzazione degli stati europei in materia di armamenti), offre molti spunti e svela diverse indicazioni strategiche sui futuri assetti ed investimenti produttivi in Europa.

L’ammiraglio avanza un format abbastanza consueto come quello secondo cui “Il rapporto tra investimento e valore aggiunto per l’economia generato della industrie di settore è di 1 a 2.6”. E’ lo stesso ragionamento fatto da sempre dal complesso militare-industriale statunitense per legittimare le immense spese militari negli Usa, secondo il quale ogni dollaro speso in armamenti è una benedizione per le ricadute sull’economia “civile”. Ma negli Stati Uniti la ricaduta in termini di valore veniva calcolata 1 a 3.

C’è poi la parte sul “dual use” militare-civile che da tempo è diventato trainante nelle spese e negli orientamenti della ricerca e sviluppo, anche nelle università.

Secondo l’ammiraglio Bisceglia “Gli investimenti nella ricerca contribuiscono ad aumentare il capitale tecnologico che si riverbera anche in settori prettamente civili. La spesa militare ha dunque un ritorno in termini know-how scientifico che arricchisce l’intera comunità. Poi gli attuali sistemi d’arma sono l’espressione delle più avanzate soluzioni tecnologiche che possono trovare efficaci applicazioni anche nel settore civile, con conseguente ritorno a favore di tutta la popolazione”.

Discorso generico sempre uguale, solo propagandistico. Quando l’ammiraglio passa a indicare quali possano concretamente essere queste ricadute civili delle ricerche a fini militari, viene infatti fuori ben poca roba.

Unico esempio interessante è quello delle Fuel Cells e delle nuove batterie al litio utilizzate nell’ambito del Programma di costruzione dei sommergibili U212 – Near Future Submarine (NFS), che troverà applicazione anche a favore di unità navali civili come ad esempio la Nave a idrogeno (ZEUS).

Infine, ma non per importanza, l’ammiraglio batte cassa. “Tutelare il settore della difesa attraverso adeguati investimenti rappresenta uno degli obiettivi strategici di un paese per i conseguenti benefici geopolitici, industriali economici, occupazionali”.

La disamina prende poi di petto la spinta a coordinare a livello europeo la progettazione e la produzione di armamenti. “A causa degli inadeguati investimenti nella difesa, gli Stati membri sono sempre meno in grado di colmare da soli le nuove lacune di capacità, a causa della minore competitività dell’industria della difesa nazionale, in quanto indebolita dal calo degli investimenti. Le nuove minacce alla sicurezza richiedono assetti capacitivi difficilmente sviluppabili autonomamente da un singolo stato membro. L’Italia non è certamente esclusa”.

Adesso che tutti gli stati europei della Nato hanno deciso di incrementare considerevolmente le spese militari, l’obiettivo è quello di destinarle – insieme ai fondi del Recovery Fund destinate al sostegno dei campioni industriali europei – a produzioni coordinate di tecnologie di aziende europee. Da questo potrebbe nascere un serio dispiacere per le industrie militari Usa, che fino a oggi hanno imposto i loro standard tecnologici sulle armi.

Per anni Washington ha insistito affinché i membri europei della Nato spendessero di più in materia di Difesa. Adesso hanno deciso di farlo, ma potrebbero spenderli per la progettazione e l’acquisto di armamenti made in Europe e non più made in Usa, e magari usarle per quell’esercito europeo che l’urgenza della guerra in Ucraina ha ipotecato, ma non cancellato.

In compenso il contesto della guerra ha completamente sdoganato l’idea che le spese militari e la produzione di armamenti sono un fattore “necessario” e addirittura “positivo”, alle quale destinare più risorse possibili.

Anche i nazisti avevano seguito questo assioma nel loro patto con gli industriali tedeschi negli anni Trenta. I risultati li abbiamo visti.

L’economia di guerra è sul piatto con tutte le conseguenze nefaste sull’oggi e sul domani, e prima invertiamo la rotta meglio sarà per tutti.

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1 Commento


  • Manlio+Padovan

    “L’economia di guerra è sul piatto” tanto che le banche di Vaticano spa e Sta Sede Srl, Intesa San Paolo e Unicredit, sono le maggiori banche armate del nostro paese: i maggiori finanziatori delle industrie di armi…per affermare il messaggio d’ammmore!
    Ma lo si tace sempre!

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