Qual’è il potere del dollaro? Perché le variazioni del suo valore di scambio sono un elemento così importante per gli Stati Uniti?
Ci sono naturalmente fior di saggi che spiegano questo “mistero” ben poco misterioso. Ma questo editoriale apparso su TeleBorsa, a firma del sempre preciso Guido Salerno Aletta, mette al centro in poche righe la questione essenziale: gli Usa sono il paese più indebitato del mondo, importano capitali (ed esportano guerra), e qualche ondata di inflazioni li aiuta a migliorare la situazione debitoria, svalutando quanto dovrebbero teoricamente restituire ai “prestatori” (il resto del mondo).
Si comprende dunque facilmente l’importanza e la direzione in cui si muovono molti recenti accordi tra paesi assolutamente non simili – quanto a sistema economico, regime politico, religione e altro – per scambiare tra loro merci senza passare attraverso la “mediazione interessata” della moneta statunitense.
L’unica al mondo che abbia ricoperto, negli ultimi 80 anni, le diverse possibili funzioni di una moneta – misura del valore, riserva e mezzo di pagamento internazionale, oltre che di scambio interno al paese – senza più avere (dall’agosto 1971) nessun rapporto con un “sottostante” riconoscibile (l’oro o altro).
Una moneta “stampata” insomma a discrezione della Federal Reserve (un potere solo nazionale), ma con effetti reali sugli scambi e i debiti di tutto il pianeta.
L’elenco di questi accordi che de-dollarizzano il mondo è ormai molto lungo. Si va dallo sconvolgente accordo tra Cina e Arabia Saudita per pagare il petrolio di Ryadh in yuan (segnado il pilastro dei “petrodollari”, che dominano i mercati finanziari dagli anni ‘70) fino al recentissimo patto di currency swap tra la stessa Cina e il Brasile (già membro autorevole dei Brics, peraltro).
Di fatto, con la recente ondata di inflazione, enfatizzata anche dalla guerra in Ucraina, gli Stati Uniti sono ancora una volta riusciti in parte a “migliorare” la propria posizione finanziaria netta, riducendo il passivo di quasi 2.000 miliardi dollari.
E questo senza dover fare alcuna politica di “austerità”, all’europea. E’ bastato far variare sui mercati internazionali il valore del dollaro.
“Se non ci fossero state la variazioni delle valutazioni derivanti dall’inflazione e dal cambio del dollaro – nota Salerno Aletta – la posizione finanziaria netta americana sarebbe peggiorata di altri 677 miliardi di dollari.”
Comodo, no? Comodissimo, ma intollerabile per i “creditori” internazionali, i quali si vedono restituire molto meno di quel che hanno prestato a Wasington.
Creditori che ora, intorno alla Cina (e all’India, in misura minore) vanno creando una rete di relazioni commerciali basate sulla parità, senza troppi trucchi monetari (almeno per ora, certo…).
Insomma, potrebbe essere una delle ultime volte che questa “magia americana” riesce almeno in parte. Poi gli toccherà lavorare, “invece di stare sul divano”…
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Debito estero americano: non è sempre oro ciò che riluce
Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa *
Sono stati appena pubblicati dal BEA (Bureau of Economic Analysis) i dati di chiusura del 2022, da cui risulta che la posizione finanziaria netta americana sull’estero è nettamente migliorata rispetto all’anno prima, essendosi ridotto il passivo da 18.124 miliardi di dollari ad appena 16.117.
Da questo saldo, un dato sintetico, emerge una netta inversione di tendenza rispetto al continuo peggioramento registrato negli ultimi anni: si è passati infatti dai -1.279 miliardi di dollari del 2007, registrati alla vigilia della Grande Crisi finanziaria, ai -18.124 miliardi del 2021. La passività netta verso l’estero si era infatti decuplicata.
Occorre analizzare con attenzione i fattori che hanno portato a questo miglioramento: tutto è dipeso infatti da fattori monetari e valutari.
Nel corso del 2022, il valore delle attività e delle passività americane nei confronti del Resto del mondo è infatti variato molto rispetto all’anno precedente per via dell’inflazione elevata che è stata registrata anche negli Usa e dell’andamento del cambio tra il dollaro e le altre valute, dapprima rafforzatosi e poi indebolitosi.
L’andamento del cambio ha esercitato una forte influenza nel corso dell’anno, visto che nei primi mesi del 2022 si era registrato un peggioramento del saldo, poi migliorato a mano a mano che il dollaro si andava indebolendo rispetto alle altre valute.
La spiegazione è questa: un americano che detiene asset o vanta crediti all’estero, li deve commisurare al valore della propria moneta, il dollaro: dunque, se ad esempio l’euro si svaluta, il valore in dollari dell’asset o del credito che sono denominati in euro diminuisce di conseguenza.
L’inflazione ha un effetto analogo, facendo gonfiare in termini nominali il valore di mercato.
Se si analizza la scomposizione del miglioramento del debito finanziario netto degli Usa, passato dai -18.124 miliardi di dollari del 2021 ai -16.117 miliardi del 2022, si constata che il miglioramento complessivo del saldo, pari a 2.007 miliardi di dollari, è stato determinato dalla combinazione tra un effetto positivo di ben 2.684 miliardi derivante dall’andamento dell’inflazione e dalle componenti valutarie ed un effetto negativo di 677 miliardi del saldo del conto finanziario.
Se non ci fossero state la variazioni delle valutazioni derivanti dall’inflazione e dal cambio del dollaro, la posizione finanziaria netta americana sarebbe peggiorata di altri 677 miliardi di dollari.
Al netto dei derivati, le attività patrimoniali statunitensi nei confronti dell’estero sono passate dai 33.078 miliardi di dollari di fine 2021 ai 29.136 miliardi di fine 2022, diminuendo così di 3.942 miliardi: ciò è dipeso da riduzioni per 3.501 miliardi dovute alla dinamica inflazionistica, per 1.261 miliardi dovute al cambio del dollaro, e per 98 miliardi dovute a poste non attribuibili, a fronte di un apporto positivo per 919 miliardi del conto finanziario.
Sempre al netto dei derivati, nello spesso periodo le passività statunitensi verso il resto del mondo sono passate da 51.222 miliardi di dollari a 45.323 miliardi, diminuendo così di 5.899 miliardi: ciò è dipeso da riduzioni per 7.622 miliardi dovute alla dinamica inflazionistica, per 106 miliardi dovute al cambio del dollaro, e ad incrementi per 313 miliardi dovuti a poste non attribuibili e per 1.516 miliardi del conto finanziario.
In pratica, escludendo le variazioni per prezzi, andamenti del cambio e poste non attribuibili, gli Usa hanno aumentato le proprie attività all’estero per 919 miliardi ed aumentato le passività verso l’estero per 1.516 miliardi, con un peggioramento di altri 597 miliardi di dollari.
Gli investimenti stranieri in strumenti di debito americani sono aumentati complessivamente di 918 miliardi di dollari, di cui 413 miliardi in titoli federali a lungo termine, Treasury bond e notes. Viceversa, sono diminuiti di 37 miliardi gli impieghi in titoli federali a breve termine, in Treasury bill e Certificates.
Due considerazioni ed una conclusione:
- gli Stati Uniti si confermano grandi prenditori netti di capitali sul mercato internazionale;
- il valore delle passività statunitensi verso l’estero è diminuito essenzialmente per via dell’inflazione: -7.622 miliardi;
- che l’inflazione favorisca i debitori, è ben noto.
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Lollo73
E’ la fine di un era lunga quasi 80 anni. Da vincitori dell’ ultimo conflitto mondiale ed impositori delle loro valuta prima nel Commonwealth, poi a tutto il mondo. Il ricatto nemmeno tanto recondito era proprio quello. Se vuoi trattare con noi devi farlo in dollari. Non tanto per ritorsioni militari, anche. Ma proprio perche lo sviluppo dell’ economia mondiale era tutto in mano all’ Occidente. Ma la storia si sa. È come il tempo, non si ferma mai. Ed il cambiamento, la fine di questa egemonia, è già in atto. Deve solo concludersi.
Paolo
ma che c’entra il Commonwhealth britannico con il dollaro?
Nuccio Viglietti
Cartiere Fabriano!…!!…https://ilgattomattoquotidiano.wordpress.com/
Alex
interessante ma dovrebbe essere spiegato con più dati e maggiore chiarezza.
Giacomo
A meno che questo cambiamento non venga bloccato da una bella terza guerra mondiale. O quel che stanno preparando gli USA e i loro alleati europei.
Roberto tabaroni
interessante e preciso. molto vicino alle sensazioni che da tempo mi giravano in testa ma non confortate da dati sufficenti per divenire convinzioni. detto ciò, per fermare questa deriva, che fare?
Danilo
Che la guerra continui!!! Più guerre, più inflazione e debito ridotto per USA.Piu’ guerra e più sanzioni e anche l’Europa, formidabile competitor, l’abbiamo affossata! Più guerra e più armamenti vengono testati. Più sanzioni e più gas venduto (a quattro volte più) agli schiavi europei. Più guerra e più NATO anche perché quel minchione di Putin è cascato nella rete, anche se non lo ha ancora capito. E gli Stati europei? E l’Europa ? Non pervenuti. I migliori partners europei sono, per gli USA, i ” campioni dei diritti civili” Ungheria e Polonia. Balbettano Francia e Germania, Italia prona come il Regno Unito. Che le Guerre continuino, Alè!
Gianfranco Stanghellini
è chiaro che è così. Da sempre gli USA Hanno nell’esercito e nella guerra e armi il loro punto di forza e lo usano contro tutti. Alleati compresi.
Basta ricordare le svalutazioni record in America latina, per scaricare sugli altri i loro debiti, da economie dettate da Americani e forze armate.
Hanno solo una speranza, riuscire a mettere sotto il mondo con la forza e la furbizia. credo gli andrà male. Certamente giocheranno tutto e fa una gran paura perché degli altri non gli frega nulla solo schiavi Consumatori nel loro schema.
Ricordate, i meno giovani, quando De Gaulle restituì loro i dollari e pretese l’oro, in seguito alla perdita di valore del Dollaro? (da 600 a 400 lire nostre allora) . Nell’agosto del 71 Nixon tolse la convertibilita’ con l’oro (L’America sarebbe fallita se tutti restituiamo i dollari e prendevano l’oro) gli Arabi poi alzarono il prezzo del Greggio e si determinò la crisi energetica e le domeniche a piedi. chi è avanti con l’età come me lo ricorda perfettamente.
l’Europa potrebbe essere un riferimento, se fosse unita e professasse una politica di pace, ma è dominata, o meglio i gruppi dirigenti sono subordinati.