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Studio di Mediobanca: l’inflazione ha gonfiato i profitti e ha abbattuto il potere d’acquisto

L’Area Studi di Mediobanca ha pubblicato da pochi giorni lo studio annuale sui “Dati Cumulativi” di grandi e medie aziende dei settori industriale e dei servizi, con riferimento al 2022. Al solito, il verdetto è che l’inflazione ha aiutato la più importante imprenditoria italiana, mentre a farne le spese sono stati i lavoratori.

Le 2150 imprese esaminate hanno visto un aumento nominale del proprio fatturato del 30,9%, per un totale superiore a mille miliardi di euro (mezzo PIL italiano, per intendersi). Nell’industria, le cui vendite sono aumentate del 36,2%, a fare la parte del leone sono state ovviamente le attività legate al petrolio e all’energia, che valgono più della metà dell’aumento.

Una bella illusione creata dall’inflazione perché, calcolando la variazione dei prezzi per la produzione, la crescita delle vendite sale di un misero 0,6%, con il secondario che va un po’ meglio del terziario.

Eppure, gli utili sono schizzati del 26,2% con risultati positivi sulla redditività, soprattutto per la manifattura, paragonata anche al quinquennio pre-Covid.

Parlando di investimenti, l’aumento a prezzi costanti in moneta del 2013 è pari a un irrisorio 0,3%. Ancora una volta, è il manifatturiero delle società più grandi e del made in Italy a trainare i dati, mentre il terziario ha ridotto gli investimenti del 4,6% rispetto al 2021.

Tuttavia, il valore aggiunto è aumentato del 7,7% ed è migliorato anche il ritorno sugli investimenti e sul capitale. Ma qualche buon risultato non cancella quel che anche Mediobanca dice tra le righe, cioè che i ricavi e la stabilità finanziaria che sta facendo reggere le aziende viene dal ladrocinio sui salari.

Questo è l’atteggiamento dei “prenditori” italiani: rischio d’impresa neanche a parlarne, sussidi a pioggia, rara innovazione e sfruttamento intensivo. Nel documento si legge che l’incidenza del costo del lavoro è passata dal 18,2% dei fatturati nel 1980 all’8,4% di oggi.

La forza lavoro è aumentata di poco e niente (1,7%) e il costo medio unitario del personale del 2% su base annua. Ma il potere d’acquisto è crollato del 22%; i lavoratori hanno insomma perso poco meno di un quarto del proprio salario.

Sentiamo da mesi demonizzare qualsiasi aumento salariale, con la paura che ci sia una “rincorsa sui prezzi“. Eppure, da mesi i prezzi aumentano e a subirne il contraccolpo sono solo i settori popolari, da cui la ricchezza è drenata per garantire profitti e dividendi.

L’idea che un indirizzo del genere, con la continua compressione dei salari e la loro svalutazione con l’inflazione, possa reggere all’infinito si scontra con il fallimento del modello export-oriented della UE, di matrice tedesca.

Le filiere continentali e il PIL soffrono, ma la domanda interna continua a essere mortificata, sperando di recuperare sulle tasche dei lavoratori. Ma proprio questo “recupero” ad un certo punto diventa impossibile, visto che viene a mancare l’unica “clientela” possibile, quella interna.

Il salario minimo a 10 euro, indicizzato al costo della vita, avrebbe l’effetto di far respirare chi è sottopagato e di fissare una soglia da cui rilanciare la lotta sul piano economico. Ma rappresenterebbe anche un elemento programmatico su cui costruire una visione politica alternativa a chi continua imperterrito sulla strada della crisi e ce ne fa pagare il conto.

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