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Economia di guerra e keynesismo militare in salsa UE

L’ultimo rapporto del Sipri (Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ha certificato l’ennesimo aumento delle spese militari a livello mondiale. I 2.440 miliardi raggiunti infrangono ogni record, con gli USA a rappresentare, ovviamente, la fetta più grande di questa somma.

In realtà, il riarmo è una dinamica che procede da anni, anche se in maniera strisciante e meno visibile, ma sicuramente un’accelerazione si è avuta con l’operazione russa in Ucraina, dal 2022. La UE è stata sin da subito in prima fila nello sdoganare l’importanza della transizione a un’economia di guerra.

In uno scenario di maggiore tensione internazionale, in cui Washington non è più in grado di fare il bello e il cattivo tempo, le classi dirigenti europee hanno sentito la necessità di rafforzare le proprie forze armate. Ma non è solo una questione di proiezione di potenza.

Con la crisi dell’unipolarismo euroatlantico e la frammentazione sempre più netta del mercato mondiale, si sono aperte enormi crepe nel modello europeo export-oriented che ha il suo fulcro nella Germania. Dazi, sanzioni, distruzione del North Stream e apparente contrasto tra profitti e strategie politiche ne hanno scoperto tutte le debolezze.

La classe dirigente europea non ha la flessibilità né la legittimità per poter dire che la compressione del mercato interno a favore delle esportazioni e la competitività ottenuta con la riduzione delle tutele dei lavoratori si rivelano oggi scelte fallimentari. Devono offrire un’altra soluzione senza mettersi in discussione.

Dal febbraio 2022 il comparto militare-industriale è stato subito identificato come un’opportunità per rilanciare l’economia UE in crisi. I vertici militari ripresi su varie testate giornalistiche lo hanno cominciato a dire in maniera esplicita, coinvolgendo su questa strada anche la ricerca pubblica e pesando sempre più sulle scelte politiche.

Sul nostro giornale abbiamo già mostrato come la legittimazione delle filiere militari derivi, in primo luogo, da interessi materiali e dalle migliaia di posti di lavoro che, ad ogni modo, una produzione di massa garantisce. Non numeri tali da compensare la desertificazione industriale di paesi come il nostro, ma a qualcosa dovranno pur aggrapparsi.

Del resto, il keynesismo militare, insieme al ruolo del dollaro nel sistema finanziario internazionale, è ciò su cui gli Stati Uniti hanno fondato il loro modello negli ultimi decenni. Per i futuri “Stati Uniti d’Europa” Berlino e Parigi vogliono seguire lo stesso percorso anche sul lato bellico-produttivo.

L’11 aprile Macron ha inaugurato i lavori di una fabbrica di polvere da sparo e munizioni a Bergerac, dentro uno stabilimento di Eurenco, società al 100% di proprietà dello stato francese. L’evento è stato l’occasione per rilanciare le prospettive dell’industria militare francese.

Macron ha dichiarato: “ci siamo avviati verso un cambiamento geopolitico duraturo […] in cui l’industria della difesa svolgerà un ruolo crescente”. A fargli da eco in maniera ancora più esplicita è stata una nota dell’Eliseo, per cui la Francia deve “accelerare il proprio passaggio all’economia di guerra e ritrovare la propria sovranità nei settori strategici”.

Politici e dirigenti di Eurenco hanno sottolineato più volte i posti di lavoro e gli investimenti che il comparto militare garantirà nei prossimi anni. Nel 2023 gli ordini di armamenti francesi sono arrivati a 21 miliardi di euro, con le spese militari in aumento continuo da un quinquennio.

Una “ricchezza” (così riporta Le Monde) che viene evocata in continuazione. La presenza di Macron sembra essere la riproposizione francese della visita che il cancelliere tedesco Scholz fece lo scorso febbraio a un nuovo sito della Rheinmetall, in cui chiese una produzione europea “su larga scala”.

All’inaugurazione ha presenziato anche Mette Frederiksen, anch’essa socialdemocratica e a capo del governo danese. Copenhagen si rifornisce spesso dall’azienda tedesca, ha consegnato tutto il suo parco d’artiglieria all’Ucraina, e la Frederiksen ha anche affermato che “la libertà ha un prezzo”, facendo riferimento alla necessità di tagliare lo stato sociale per finanziare il riarmo.

Tornando alla Germania, la punta di diamante dell’industria tedesca, l’automotive, è in difficoltà di fronte alla competizione cinese. Il viaggio appena concluso da Scholz a Pechino lo ha visto barcamenarsi con logiche del passato in un mondo molto diverso da quello che ha fatto le fortune tedesche negli ultimi decenni.

Rheinmetall prevede che quest’anno le vendite supereranno i 10 miliardi di euro, 3 in più del 2023. Nello stesso anno, l’azienda ha ricevuto 108 mila candidature, e quest’anno sono già circa 40 mila.

Anche il produttore di ingranaggi Renk ha visto aumentare le richieste di lavoro, con profili professionali sempre più alti e formati. Dalle risorse umane dell’impresa fanno sapere che si aspettano domande da molti lavoratori provenienti dagli esuberi del settore automobilistico.

Il riarmo della Germania si presenta sempre più come una strada alternativa per il modello tedesco. Thomas Müller, ex amministratore delegato di Hensoldt, attiva nel mercato dei sensori per le difese aree, ha dichiarato: “approfittiamo dei problemi di altri settori per costruire la nostra forza lavoro”.

Insomma, politici e produttori di armi sono in sintonia più che mai nel far virare definitivamente anche la UE verso un keynesismo militare, che serva a riarmarsi e svolgere un ruolo autonomo nello scenario mondiale. Ma che garantisca anche nuove opportunità di crescita di fronte alla stagnante situazione economia.

Chi ha scelto questa strada in passato si è trovato in un circolo vizioso in cui, per alimentare la propria economia, ha alimentato anche l’impegno bellico su sempre più fronti, in sempre più conflitti. È un piano inclinato su cui l’imperialismo si è avviato, senza conoscere alternative.

Essa può venire solo da un processo di trasformazione sociale, in cui non sia più il profitto e il privato ad avere la proprietà e la gestione dei mezzi di produzione, e a decidere l’indirizzo degli investimenti. Questa transizione è in un certo senso favorita dalla guerra del capitale.

Come è già successo con le tragedie delle guerre mondiali, il passaggio a un’economia di guerra vede crescere un forte impianto di interventi e strutture pubblici di coordinamento. Anche se la UE ha ancora un modello di governance pieno di farraginosità, l’approvazione della prima strategia industriale sulla Difesa e l’impegno sulla Military Mobility sono esempi di importanti passi in questa direzione

Senza una pianificazione pubblica, sarebbe impossibile pensare di saper indirizzare l’intero sforzo sociale verso un obiettivo tanto deprecabile quanto impegnativo e totalizzante come la guerra. E allora la pianificazione, già largamente usata nelle grandi multinazionali, non solo è possibile, ma non si capisce perché dovrebbe essere utilizzata a questo scopo invece che ad altri più pacifici.

Su questo terreno le forze politiche di alternativa possono più facilmente far passare il messaggio di un mondo diverso, e mostrare che vi sono gli strumenti e le risorse per pianificare il cammino dell’intera collettività su questa diversa strada, sulla base degli interessi delle classi subalterne.

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1 Commento


  • Lo Re

    La merdosa comunità europea ci fara’ rimpiangere amaramente la vecchia cara Italia. Personalmente è così da anni. Pensano di fare economia di guerra senza materie prime. Idioti totali.

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