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Si inasprisce la guerra dei chip, la Cina risponde agli embarghi

La produzione dei chip è uno dei campi che è oggi al centro della competizione globale. Essere all’avanguardia in questo settore ha effetti a cascata a livello sistemico, perché significa guidare la rivoluzione digitale, controllare un mercato imprescindibile per la conversione ecologica, sviluppare ulteriormente l’Intelligenza Artificiale e la computazione quantistica.

Anche per questi beni la Cina è diventata la “fabbrica del mondo“, e perciò Washington ha intrapreso due strade nel confronto col Dragone in questo ambito. La prima è stata la proibizione dell’esportazione di prodotti avanzati, portando con sé anche aziende di alleati come l’Asml olandese per la stampa litografica dei chip.

La seconda è il Chips and Science Act varato dall’amministrazione Biden nell’agosto 2022. Si tratta di circa 280 miliardi di dollari divisi tra vari capitoli di spesa, con l’obiettivo di spingere la ricerca sui semiconduttori (i materiali alla base dei chip) e la rilocalizzazione della loro lavorazione in aree politicamente più controllabili.

A quasi due anni sono già cominciati i bilanci di questo provvedimento, con risultati a tratti contrastanti. Gli interventi pubblici hanno innescato vari altri investimenti privati, per un totale di 327 miliardi di dollari annunciati nei prossimi dieci anni: si prevede che entro il 2030 il 20% dei chip più avanzati verranno prodotti negli Stati Uniti.

Ne guadagnerà anche l’occupazione, con 25-45 mila nuovi posti di lavoro, ma altre analisi hanno mostrato come farraginosità burocratiche e mancanza di personale specializzato rallenteranno questo processo. E inoltre l’impatto previsto sulle capacità produttive di Pechino sembra dovrà essere ridimensionato.

Infatti, il Huawei Mate 60 Pro presentato lo scorso anno fa affidamento su un chip di sette nanometri di cui la Cina non avrebbe potuto disporre. Inoltre, è notizia di pochi giorni fa che un gruppo di ricerca cinese abbia fatto importanti passi avanti nella creazione di un chip per computer quantistici a partire da un semiconduttore comune: nessuno ci si è mai avvicinato fino ad ora.

Appaiono dunque piuttosto di circostanza le parole della Segretaria al Commercio degli Stati Uniti, Gina Raimondo, che intervistata il 21 aprile da CBS News ha affermato che la Cina è “anni indietro” ai Big Tech a stelle e strisce. O per lo meno, nascondono il fatto che al ritmo di innovazione odierna, un anno è molto più breve di quanto si possa immaginare.

Bisogna poi aggiungere che il Dragone sta prendendo contromisure alla guerra commerciale mossagli dall’Occidente. L’ultima è recentissima, riportata dal Wall Street Journal il 12 aprile, e passa attraverso un’ordinanza del ministero dell’Industria e della Tecnologia cinese che avrebbe lo scopo di eliminare la dipendenza da chip esteri.

Gli operatori in ambito delle telecomunicazioni dovranno creare una roadmap per fare in modo di sostituirli con quelli nazionali entro il 2027, con danni soprattutto per le statunitensi Intel e Amd. Nel 2023 la prima ha realizzato il 23% dei suoi introiti in Cina, la seconda il 15%.

Al di là delle schermaglie con Washington, è evidente che questa scelta si pone in continuità con tante altre che hanno lo scopo di favorire la crescita del mercato interno. E questo allo stesso tempo potrebbe fornire a Pechino una nuova leva di competizione.

Il dibattito si concentra sempre sui prodotti di ultima generazione, ma la maggior parte dei beni di uso quotidiano e di massa si fonda sui legacy chips. Sono i chip con prestazioni standard e di più facile costruzione, e di conseguenza anche i più diffusi al mondo.

A febbraio si stimava che la produzione cinese di questi chip crescerà del 60% nei prossimi tre anni. Il Dragone ha 44 Fab (impianti di fabbricazione di semiconduttori), a cui programma di affiancarne altri 22 rifornendoli di nuovi, seppur non tra i più avanzati, macchinari litografici (ordini aumentati del 1050% tra il 2022 e il 2023).

Con questa strategia, la Cina potrebbe indebolire le multinazionali statunitensi, garantendo alle industrie nazionali del settore la domanda necessaria a continuare il proprio sviluppo e l’aggiornamento dei propri prodotti. E inoltre assumerebbe un peso maggiore nel mercato dei chip, con maggior leva sulle dinamiche di domanda e offerta.

Come si diceva poco sopra, di questi tempi essere “anni indietro” non preclude nessun futuro sviluppo. E le strade per essere una spina nel fianco all’imperialismo euroatlantico sono tante.

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2 Commenti


  • matteo

    Quando avranno bisogno delle terre rare in mano ai cinesi, ai russi e ai paesi che non sopportano più il dominio dell’Impero di carta straccia, vedremo che faccia faranno le jene suprematiste nell’animo come la “signora” Raimondo…


  • Mirko

    Aggiungiamo che la Cina si sta sbarazzando del dollaro acquistando oro.

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