La fine della breve stagione degli alti tassi di interesse, negli Usa, volge al termine.
Il presidente della Federal Reserve (la banca centrale), Jerome Powell, nell’atteso discorso fatto a Jackson Hole, nel Wyoming, ha affermato che «I rischi al rialzo per l’inflazione sono diminuiti. E i rischi al ribasso per l’occupazione sono aumentati. È giunto il momento che la politica si adegui. La direzione di marcia è chiara e i tempi e il ritmo dei tagli dei tassi dipenderanno dai dati in arrivo, dalle prospettive in evoluzione e dall’equilibrio dei rischi».
Va ricordato che o statuto costitutivo della Fed asssegna due compiti all’istituto: combattere l’inflazione (come per ogni banca centrale) e gestire il tasso di disoccupazione. Questo doppio obiettivo non permette insomma di sbilanciare troppo la politica monetaria in uno dei due sensi, obbligando a tagliare i tassi base quando la disoccupazione cresce al di là degli obiettivi.
Naturalmente bisogna tener conto anche del fatto che “disoccupato” è una definizione piuttosto restrittiva – basta aver lavorato anche soltanto un’ora nelle quattro settimane precedenti. Ed è chiaro che con quel “salario” è assolutamente impossibile sopravvivere.
Una definizione, insomma, che non corrisponde alla realtà sociale della disoccupazione e mantiene il “tasso ufficiale” – certificato dall’istituto centrale di statistica – ad un livello truffaldinamente basso.
Ma anche tenendo d’occhio un dato irrealistico, la Fed è comunque obbligata a preoccuparsi che quella disoccupazione non sa “eccessiva”.
Peggio ancora fa la Banca Centrale Europea, il cui statuto prevede invece soltanto la lotta all’inflazione e quindi completa indifferenza rispetto al livello della disoccupazione (misurata peraltro con gli identici criteri).
Powell dunque taglierà i tassi di interesse, attualmente nella “forchetta” 5,25-5,5%, già nella riunione della Fed di settembre. L’incertezza riguarda ora la dimensione del primo taglio, quello con più conseguenze politiche.
Come è noto, negli Usa si vota nella prima settimana di novembre e il livello della disoccupazione – il tasso “bugiardo” è attualmente al 4,3% – è naturalmente un argomento sensibile. Abbassare i tassi di interesse significa rendere un po’ più facile il ricorso delle imprese a denaro in prestito, e dunque anche a qualche assunzione più.
Ma tra la riunione della Fed di settembre e il primo martedì di novembre corre all’incirca un mese e mezzo. Troppo poco per avere effetti sull’economia reale e il numero dei posti di lavoro. Se Powell avesse voluto facilitare la corsa prima di Biden e ora di Harris, avrebbe dovuto agire prima.
La dimensione del taglio sarà comunque politicamente rilevante solo se almeno di mezzo punto percentuale (50 “punti base”), perché darebbe l’idea che il ritorno alla normalità sarà rapido e significativo. Un taglio di soli 25 punti, invece, darebbe poca spinta elettorale all’amministrazione uscente, confermando che l’uscita dalle ristrettezze sarà lunga e subordinata alle sole valutazioni tecniche della banca centrale.
Ovvio che Trump sia comunque all’attacco, almeno verbalmente, accusando la Fed di voler favorire Kamala, ma anche lui sa che non è possibile andare avanti con gli attuali livelli dei tassi.
A prescindere da questa dimensione, comunque, il taglio dei tassi è diventato necessario per sostenere una velocità di crescita dell’economia Usa che appare sostanzioso solo grazie alla componente “finanza”, mentre quasi tutti i settori dell’economia reale – tranne gli armamenti – continuano ad arretrare.
La Bce sarà costretta ben presto a seguire l’esempio di Powell, se non altro per ragioni monetarie. Un differenziale troppo alto dei tassi rispetto a quelli Usa farebbe salire ancora la quotazione dell’euro, azzoppando così l’economia continentale già quasi in recessione (lo è di fatto la Germania, l’ex “locomotiva”), con la doppia tagliola del costo del denaro alto e della sopravvalutazione della moneta rispetto ai diretti concorrenti.
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