All’ultima riunione per il 2024 del suo Consiglio Direttivo, la BCE ha deciso di tagliare i tassi di interesse di riferimento di altri 25 punti base, cioè dello 0,25%, portandoli sui depositi al 3%, sulle operazioni di rifinanziamento principali al 3,15% e sulle operazioni di rifinanziamento marginale al 3,40%, con effetto dal 18 dicembre.
Per ora, a Francoforte hanno deciso di mantenere un approccio prudente, nonostante fossero in tanti a chiedere un intervento più deciso, dello 0,5%. L’inflazione, però, aveva dato segnali di instabilità e di una leggera crescita, e in pratica tutti gli operatori economici avevano dato per impossibile un taglio maggiore.
Che significa in termini concreti uno 0,25% in meno? Se partiamo dai mutui, Facile.it ha stimato che questa sforbiciata dovrebbe abbassare la rata dei mutui variabili di circa 18 euro nei prossimi mesi, portandola a 664 euro dai 748 di inizio anno. Una cifra che rimane comunque ben lontana dai 456 di inizio 2022.
Rimane forte il timore di un costo eccessivo di finanziamento per le imprese. Ma il problema di fondo non è tanto il costo del denaro, per quanto si senta in continuazione questo tema, quanto un mercato interno strozzato e uno esterno in balia delle incertezze geopolitiche, elementi che disincentivano gli investimenti.
Ad ogni modo, la BCE, in risposta a una consultazione della Commissione UE, un paio di giorni fa aveva già detto che sarebbe disponibile ad agevolare le cartolarizzazioni, cioè la trasformazione di crediti in titoli obbligazionari negoziabili, liberando così nuove risorse finanziarie. Creando allo stesso tempo una nuova bolla finanziaria e rendendo più interconnessa e fragile la finanza continentale, ma tant’è.
Vengono invece smorzati gli entusismi di chi era certo che, in questa occasione, dalla BCE ci sarebbe stato l’impegno a muoversi fuori da una politica dei tassi decisa dai dati analizzati riunine per riunione. Era questo il desiderio espresso sia dal governatore di Bankitalia, Fabio Panetta, sia da quell’omologo francese Villeroy de Galhau.
“Le decisioni sui tassi di interesse saranno prese a seconda dei dati macro che saranno diffusi e dalle proiezioni economiche che il nostro staff continuerà a elaborare” sono state le parole di Lagarde, negando l’ipotesi che il prossimo anno ci si muova su di un percorso predeterminato.
Annuncio fondamentale della sua conferenza stampa è stato quello riguardante la fine del programma di acquisto di titoli pubblici e privati avviato durante la pandemia Covid, il PEPP-QE. L’effetto immediato è stato quello di far balzare in alto lo spread che hanno i titoli italiani e francesi col Bund tedesco.
Insomma, di certo un quadro che non sembra una mano tesa alle “colombe“, ma che va compreso dentro la necessità di rivedere la politica monetaria nella riorganizzazione complessiva della struttura comunitaria stessa. Non è un caso che Lagarde abbia anche sottolineato come sia “cruciale concretizzare le proposte contenute nei rapporti di Mario Draghi e di Enrico Letta“.
Alle fondamenta c’è sempre il nodo della competizione globale in epoca di crisi. E dunque il problema della guerra commerciale (e anche in parte monetaria), non quella con la Cina ma quella che muove alla UE l’alleato che siederà alla Casa Bianca. Le scelte di Trump e l’atteggiamento della Federal Reserve spingono la BCE a non fare previsioni per il 2025.
L’11 dicembre il Dipartimento del Lavoro USA ha pubblicato l’indice dei prezzi al consumo, in rialzo anche oltreoceano sia in generale sia nella sua componente core dello 0,3% (al ritmo più alto da aprile). Questo e la politica espansiva che potrebbe scegliere il tycoon, almeno nel primo periodo della sua seconda presidenza, potrebbero segnare già da oggi la fine dell’epoca dei tagli negli Stati Uniti.
Il processo che si metterà in moto sarà quello di rendimenti più significativi dei titoli statunitensi, attirando capitali e spingendo di nuovo la forza del dollaro sull’euro. E dunque aumentando i costi delle importazioni, mentre le esportazioni saranno messe a dura prova dai dazi, peggiorando le già fragili previsioni di crescita.
Francoforte, insomma, si trova stretta tra la scelta di una politica espansiva per sorreggere l’economia, come prevede ad esempio Goldman Sachs, per il quale nel prossimo anno vedremo “riduzioni sequenziali di 25 punti base fino all’1,75% entro luglio, leggermente al di sotto del nostro intervallo stimato per il tasso neutrale“.
E una politica restrittiva, più volte ancora invocata dai “falchi” europei, per tenere alto il valore dell’euro e fare fronte a un’inflazione che potrebbe non rientrare del tutto entro i target stabiliti. Come ha detto Draghi, ci troviamo di fronte a una sorta di nuova stagflazione, con alti tassi di interesse e alta inflazione.
La crescita rallenta di nuovo mentre “l’inflazione potrebbe puntare verso l’alto“, ha detto sempre Lagarde. “Se le tensioni commerciali non aumenteranno, le esportazioni dovrebbero sostenere la ripresa“, ha aggiunto. In pratica, un’ammissione di come Francoforte navighi a vista, e anche un po’ in un mondo di sogni.
Le contraddizioni della crisi strutturale non potranno che aumentare, e dunque anche le tensioni commerciali e quelle militari. Confidare nel fatto che si risolvano come per magia, e per di più reiterando quel modello export-oriented che ha evidentemente fatto il suo tempo, significa essere in balia di politici privi di qualsiasi visione strategica.
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