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Indagini antimafia: divise sporche, talpe, spioni e infedeli

Il 19 luglio 1992 tra le fiamme e le colonne di fumo di Via d’Amelio si muoveva con disinvoltura l’ufficiale dei carabinieri Giovanni Arcangioli, ritratto in molte foto mentre si allontana dal teatro della strage, reggendo in mano la valigetta personale di Paolo Borsellino. 
Quella borsa conteneva l’agenda rossa, piena di preziosi appunti e informazioni su Cosa Nostra; dopo tre quarti d’ora dal prelievo la valigetta era tornata al suo posto, sui sedili posteriori dell’auto blindata del magistrato, ma senza il suo prezioso contenuto. 
In seguito a un processo per furto aggravato dall’aver favorito la mafia – durato 13 anni – Arcangioli è stato prosciolto anche in Cassazione per non aver commesso il fatto. Che in quella valigetta ci fosse l’agenda rossa di Borsellino e che dopo quell’inspiegabile mossa l’agenda sia scomparsa, è ormai storia e non si discute. Anni dopo Arcangioli solleverà un polverone parlando di un’inestricabile rete tessuta dai servizi segreti intorno all’attentato, ma il dubbio che rimarrà per sempre irrisolto è se in quel momento il carabiniere stesse eseguendo degli ordini, e da chi questi gli fossero stati impartiti. 
Dall’immagine di Arcangioli con la polo azzurra, il distintivo dell’arma appeso al collo e la valigetta di Borsellino in mano, bisogna partire per comprendere e delineare la figura della “talpa” nell’era giudiziaria contemporanea. 
Personaggio irrinunciabile, protagonista di buona parte delle trame legate alle storie di mafia e antimafia, grande inquinatrice d’indagini, la “talpa” attraversa costantemente gli anni della prima, della seconda e della incipiente terza repubblica, determinando vaste zone grigie difficili da decifrare. Gli infiltrati sono il braccio esecutivo della rimozione storica, tra i principali artefici di quell’oblio collettivo in cui si perdono le cronache giudiziarie, mafiose e non, della storia repubblicana. Possono vanificare anni di indagini con una telefonata a un boss per avvisarlo dell’imminente arresto, con la distruzione di un documento, con la rivelazione di segreti d’ufficio, con la vera e propria protezione. 
Nel lunghissimo elenco di pubblici ufficiali infedeli, nessuna delle cinque forze dell’ordine italiane manca all’appello. Poliziotti, carabinieri e finanzieri di ogni ordine e grado, possono rivelarsi portatori sani del virus della corruzione e della delazione. Anzi più alto è il grado ricoperto, maggiore è la predisposizione alla devianza, per ragioni di contiguità ai centri nevralgici del potere. Svanisce il confine tra legge ed extralegalità e si concedono sempre maggiori spazi a innaturali commistioni tra criminalità organizzata e apparati giudiziari.
L’omicidio di Federico Aldrovandi rimane un esempio ancora oggi ineguagliato di devianza poliziesca, e di alterazione dei rapporti tra magistratura e polizia. E come per Aldrovandi, ogni omicidio o pestaggio di polizia ha portato alla ribalta gli ormai ben noti meccanismi di autotutela, utili a evitare processi e condanne.
Qui il discorso è diverso. L’esistenza delle gole profonde nelle varie procure d’Italia propone scenari ancora poco esplorati, o volutamente ignorati. La posta in gioco per i coinvolti è molto più alta. Non si tratta di nascondersi per scampare ai processi, ma di muoversi nell’ombra per agevolare criminali di prim’ordine, occultare delitti, proteggere mafiosi o politici corrotti di alto profilo, sfruttando in maniera criminale gli strumenti investigativi e i pubblici uffici di cui si dispone. 
Se è vero che gli alti funzionari della polizia temono di più che si parli di corruzione in divisa che delle botte in questura, le inchieste antimafia vanificate, oppure ostacolate negli ultimi anni dalle improvvide soffiate dei delatori in divisa, propongono con urgenza la revisione per intero dei rapporti tra forza pubblica e apparati giudiziari.
Gli episodi non si contano, sono all’ordine del giorno. La corruzione è endemica e diffusa. Mafie e polizie, mafia e stato, quando non si combattono vanno a braccetto. A dimostrarlo ci sono i fatti, non le congetture.

Cetrara, provincia di Cosenza. L’operazione Overloading sgomina un’imponente rete di narcotraffico facente capo alla cosca ‘ndranghetista dei Muto, noti pescivendoli della zona. Sotto la copertura del mercato ittico la cosca, ramificata in Colombia e Venezuela, importava droga da smerciare su tutta la costa cosentina. Tra i garanti della rete di narcotraffico troviamo il colonnello dei carabinieri Luigi Verde, che ricopriva anche il ruolo di corriere e di “insider”, fornendo dettagli e informazioni preziose sulle indagini in corso. 
Rosarno, provincia di Reggio Calabria. Nell’ambito dell’operazione All Inside 2, condotta dalla procura di Reggio Calabria contro il Clan Pesce, spuntano i nomi di due appuntati dell’Arma, Carmelo Luciano e Giuseppe Gaglioti, che passavano informazioni alla cosca Pesce, i padroni incontrastati di Rosarno, dove nel 2010 si consumò la rivolta degli immigrati contadini. 
I due carabinieri hanno scelto di farsi processare con rito ordinario, con le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa. Nella stessa inchiesta troviamo il coinvolgimento di altri due esponenti delle forze dell’ordine, Lucio Aliberti e l’agente penitenziario Eligio Auddino. Per il primo non è stata disposta alcuna misura in seguito alle indagini; l’agente penitenziario Adduino, prodigo di favori e regali a ‘ndranghetisti detenuti al carcere di Palmi ha invece scelto il rito abbreviato, con l’accusa di corruzione: per lui la condanna ammonta a tre anni e quattro mesi. 
Un collega di Adduino, Vincenzo Zuccarello, sempre in servizio nel carcere di Palmi prestava il proprio telefono cellulare a detenuti ‘ndranghetisti, per consentire loro di telefonare a casa. Il processo a suo carico è ancora in corso.
Locri, Reggio Calabria. I tre membri della Guardia di Finanza Vincenzo Insardà, Giuseppe Crinò e Francesco Inzirillo avrebbero fornito ad alcune ‘ndrine della Locride preziose informazioni su indagini fiscali a loro carico, oltre ad essere coinvolti in un giro di truffe alle assicurazioni, triangolate tra agenzie locali di note ditte di assicurazione, forze dell’ordine e medici compiacenti. Il tutto sotto l’egida della ‘ndrangheta. Allo stato attuale sono decaduti i presupposti per la custodia cautelare a loro carico, così come è decaduta l’aggravante mafiosa. Accuse ammorbidite, per un processo ancora in corso.
Ancora nella Locride nell’ambito dell’operazione “Circolo Formato”, condotta contro il clan Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica, finisce in manette un altro esponente della Polizia di Stato, Franco Avenoso, che avrebbe favorito le attività della cosca. Era sposato con la cugina di uno degli arrestati nell’ambito dell’operazione, e forniva informazioni sulle indagini. L’accusa è di rivelazione di notizie coperte da segreto investigativo.
Sempre in provincia di Reggio Calabria, nell’ambito di un’operazione contro la cosca Lo Giudice culminata lo scorso 12 aprile con 12 arresti e cinque milioni di beni sequestrati, viene smascherato il servo infedele dello Stato Saverio Spadaro Tracuzzi, capitano dell’Arma dei Carabinieri, amico stretto del boss Luciano lo Giudice col quale intratteneva un fitto scambio di favori e prebende. Al momento il capitano Tracuzzi si trova detenuto nel carcere militare di Caserta.

In Sicilia, l’aria è altrettanto pesante:

La Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Regione Siciliana 

P.Q.M. definitivamente pronunciando, respinta ogni altra contraria istanza, deduzione ed eccezione, in accoglimento della domanda della Procura Regionale, 
condanna 

il sig. Ciuro Giuseppe a pagare la somma di € 35.000,00 a favore della Guardia di Finanza, inclusa la rivalutazione monetaria, oltre gli interessi legali sulla citata somma dal deposito della presente sentenza al soddisfo; pone, altresì, acarico del convenuto le spese di giudizio che vengono liquidate a favore dello Stato e quantificate in € 133,78.

Così deciso in Palermo, nella camera di consiglio del 30 marzo 2012.

L’ Estensore F.to Dott. Giuseppe Colavecchio
Il Presidente F.to Dott. Luciano Pagliaro

Depositata oggi in Segreteria nei modi di legge.

Palermo, 18 aprile 2012

Giuseppe Ciuro è stato condannato a 4 anni e 6 mesi per aver spifferato segreti investigativi all’imprenditore mafioso Michele Aiello, che per associazione mafiosa dovrà a sua volta scontare 14 anni. Si noti che Michele Aiello era uno dei protetti del fu governatore della Sicilia Totò Cuffaro.

A Palermo, l’operazione Pedro, condotta dai carabinieri, evidenziava i rapporti tra i mandamenti di “Porta Nuova” e Bagheria, con i mandamenti di altri quartieri. Il clan di Porta Nuova otteneva informazioni da una talpa: Matteo Rovetto, 58 anni, poliziotto della sezione antirapina della Squadra Mobile, accusato ora di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Le cosche imponevano al set della fiction televisiva ”Squadra antimafia – Palermo oggi” sia le comparse sia la fornitura di cocaina (!).
Questa vicenda non è che la replica su scala minore della famigerata vicenda delle “Talpe di Palermo”, l’efficacissima rete di uomini delle forze dell’ordine infedeli che fornivano supporto e informazioni alla rete di protezione di Bernardo Provenzano. 

Questi sono solo alcuni esempi di quanto sia diffusa la pratica della delazione, che trova terreno fertile nella vulnerabilità e accessibilità dei dati sensibili, quando questi finiscono nelle mani sbagliate: quelle degli insiders. 
Mani sporche, corrotte, sicure dell’impunità, cellule cancerogene che proliferano negli ormai pochi settori sani dello Stato. L’insider è un individuo che agisce all’interno di organizzazioni e istituzioni con il preciso scopo di sabotare il flusso di lavoro degli organi inquirenti. Le categorie maggiormente inclini al fenomeno dell’infiltrazione – è questo il paradosso – sono le stesse che esercitano funzioni di tutela e salvaguardia dello Stato: pubblici ministeri, giudici, funzionari amministrativi, poliziotti, carabinieri, finanzieri; e se da un lato le strutture di spionaggio interno alle procure vengono quasi sempre smantellate, è impossibile quantificare quanti danni abbiano prodotto prima di essere svelate e quanto siano stato in grade di modificare gli esiti delle indagini.”

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