Più che una partita, un remake del Fitzcarraldo di Herzog. Ma una semifinale dei mondiali era finita con sei gol di scarto, mai il Brasile aveva preso una scoppola tanto grossa, mai la Germania si era spinta così in là per gioco e reti segnate.
La partita dei ‘’mai’’, una cosa della quale si può parlare soltanto dicendo ciò che non è stata. Ogni ‘’se’’, ogni ‘’ma’’ va a sbattere contro cinque gol segnati in trenta minuti. Pura accademia il secondo tempo, la reazione brasiliana è stata un ombrellino da cocktail in mezzo a un uragano.
Doveva essere «come una finale» e invece è stata una versione particolarmente sadica di un’amichevole estiva, tipo Germania – Fermana, ma è possibile che la Fermana sarebbe riuscita a fare di più di questo Brasile. Con tutto il rispetto. Difficile fare una qualsiasi analisi tattica, ogni questione si ferma al dilemma: «ma era fortissima la Germania o era il Brasile ad essere troppo scarso?». L’assenza di Neymar è stata così decisiva, oppure il 10 brasiliano ha salvato la sua carriera, non giocando? Stesso discorso per Thiago Silva.
L’abisso della gloria, un gigantesco non detto che si sposta verso la finale per il terzo e il quarto posto che si giocherà sabato. Contro l’Argentina o contro l’Olanda, si vedrà. Magari l’inferno, sarebbe un sollievo. Sugli spalti, le lacrime amarissime di un popolo che ha fatto del pallone la propria riscossa.
Il fútbol bailado, i fenomeni, la storica superiorità, Didì-Vavà-Pelè, Ronaldinho-Ronaldo-Rivaldo. Tutto finito. Tutto sbagliato. Un’illusione lunga settant’anni. Può una partita riscrivere la storia della critica calcistica? Quando nel 1950 l’Uruguay alzò la coppa al Maracanà, i brasiliani decisero di cambiare i colori sulla maglia. Osvaldo Soriano immortalò quella partita con un’intervita a Obdulio Varela, il re del centrocampo celeste che, vedendo la gente piangere per le strade di Rio, un po’ si era quasi pentito di aver vinto la partita. L’hanno chiamato ‘’Maracanazo’’, le cronache riportano tempi, temi e atmosfere da apocalisse in terra. I tedeschi no.
C’è quasi da pensare che il portiere Neuer non abbia dormito la notte per il gol subito allo scadere. C’è chi dice che «il calcio è quello sport che si gioca in undici contro undici e alla fine vincono i tedeschi». Solo gli italiani possono dire di non averci mai perso contro, anzi, l’unica volta che ci hanno perso è stato quando ci si erano alleati. Misteri della cabala, il materialismo dialettico trema davanti a una partita di pallone. In tutti i bar del mondo – eccezion fatta per quelli della Germania – alla rete del Brasile si è alzato un applauso quasi liberatorio.
Raramente si è vista una reazione del genere a un gol della bandiera. Il portierone Julio Cesar ha alzato gli occhi al cielo, mister Scolari si è girato verso la panchina e chissà cosa avrà detto, Ronaldo, nella veste di telecronista, piangeva pure lui. Le telecamere hanno trasformato in icone globali i bambini e le ragazze soffocati dal pianto, i tifosi senza più speranza. La maglia a nascondere la testa, lo sguardo da olocausto nucleare alle porte.
La fine della storia, la caduta del muro di Berlino (ops), il tramonto, malinconico e pirotecnico, di un impero del pallone. Certo, è solo calcio. Ma che stretta al cuore.
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giovanni
volendo anzichè scrivere l’ennesimo pippone sul nulla, qualcosa di materialista si poteva dire comunque.
Per esempio spiegare che quando il titolare medio del Brasile è un milionario, di sbattersi per la nazionale gliene frega relativamente, perchè non è quella che gli paga lo stipendio, ma una squadra quasi sempre europea che esercita tutta la pressione possibile perchè non si sforzi troppo e non torni dal mondiale infortunato, con quello che costa!
Oggi non c’è più nessun motivo per dare il massimo con la nazionale, e questo spiega il 7-1, ma anche il 5-1 subito dalla Spagna campione in carica, o l’uscita al primo turno in SUdafrica di entrambe le finaliste del 2006.