L’esplosivo destinato all’attentato contro il Pm palermitano Nino Di Matteo da parte delle cosche mafiose, sembra avere una pista veneta. Di Matteo è uno dei giudici che ha fortemente voluto il processo a Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia. Per questo si è fatto molti nemici, e non solo tra le organizzazioni e i killer della mafia. Il Fatto del 21 novembre racconta diversi retroscena di un’inchiesta che potrebbe avere sviluppi clamorosi. Il quotidiano pone domande pertinenti sulla provenienza di 400 kili di esplosivo che secondo il boss siciliano Vito Galatolo, diventato recentemente “collaboratore di giustizia”, sarebbero stati uno dei primi passi per togliere di mezzo Di Matteo con una modalità non dissimile dalle stragi in cui morirono Falcone, Borsellino e gli agenti delle loro scorte.
Il Fatto lascia intravedere due circostanze che riportano nuovamente il Veneto dentro una inchiesta per attentati e tentate stragi. La prima riguarda le voci che trapelano dal Viminale secondo le quali i boss siciliani per percorrere una ipotetica pista di approvvigionamento dell’esplosivo nei paesi dell’Est avrebbero riattivato diverse conoscenze presso alcuni esponenti della mala del Brenta. La seconda è che il pentito di mafia Vito Galatolo avrebbe parlato di entità esterne alla mafia che comunque sarebbero o sarebbero state interessate a portare avanti la strategia delittuosa contro il pm antimafia, Di Matteo appunto, che sta portando avanti il processo per la trattativa tra Stato e mafia.
Ma se l’inchiesta sull’esplosivo ordinato per un attentato al pm Di Matteo ci porta in Veneto, nessuno può ignorare il ruolo avuto dal “cuore nero” del nostro paese – Verona – e dai gruppi neofascisti con base nel Triveneto nella strategia delle stragi in Italia. Gli uomini neri formati e addestrati per il lavoro sporco che ha insanguinato l’Italia, sono transitati tutti per questo quadrante nordorientale. Del resto anche i bombaroli neri non sembrano del tutto estranei alle stragi di mafia, anzi. Il killer mafioso Giovanni Brusca, anche lui pentito, ha raccontato che fu lui a premere il bottone del telecomando della strage di Capaci, perché il “fuciliere” designato per l’attentato, tale Pietro Rampulla, che aveva effettuato personalmente le prove, “quel giorno aveva un impegno familiare”. Pietro Rampulla è un uomo delle cosche di Mistretta. ma è anche un noto neofascista esperto di bombe da attivare con congegni radiocomandati, legato a Ordine Nero. Il primo che parlò del neofascista Rampulla, fu Luigi Ilardo, un mafioso diventato nel ’94 la “fonte Oriente” del colonnello dei carabinieri Michele Riccio ma di fatto lasciato uccidere nel 1996. Il procuratore aggiunto della Dna, Gianfranco Donadio, ricorda che Falcone “Non parlò solo di menti raffinatissime, ma di menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi”. Ed infine lo stesso Falcone dopo l’attentato alla sua villa dell’Addauro affermò “Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile, se si vogliono capire le ragioni che hanno spinto qualcuno a tentare di assassinarmi”.
Ma anche le infiltrazioni mafiose in Veneto, proprio a partire dagli anni successivi alla trattativa tra Stato e mafia, hanno visto una crescita piuttosto impetuosa. Una volta sdoganata e messi fuori gioco i boss dalla vecchia mentalità, la nuova mafia si è perfettamente integrata nel sistema orientando le sue iniziative e i suoi interessi lì dove stanno o vanno i “piccioli veri”. Interessante, in tal senso, un ampio servizio sulle infiltrazioni mafiose in Veneto, dove non si parla ovviamente solo della mafia siciliana ma anche di quelle emergenti, come quella calabrese o pugliese.
Nell’ottobre di quest’anno, ad esempio, ben dieci arresti sui 52 provvedimenti restrittivi di una operazione coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, sono stati eseguiti a Verona e provincia. L’obiettivo del ramo veronese dell’organizzazione mafiosa era sostanzialmente quello di raccogliere sempre più denaro, e radicarsi in un territorio economicamente forte come quello veronese.
La criminalità organizzata nel veronese sembra ormai essere una presenza indiscussa, e in modo particolare quella ndranghetista. “Porto Franco” è il nome dell’operazione giudiziaria che ha portato in carcere tredici imprenditori a vario titolo collegati con le ndrine dei Pesce e dei Molé, nomi che in Calabria incutono timore, fra le famiglie criminali più potenti non solo sul territorio calabrese ma anche nel resto d’Italia tutta e con importanti ramificazioni in Europa. Un imprenditore calabrese è stato arrestato nella provincia di Verona perché titolare di due aziende di autotrasporto con sede a Nogarole Rocca, ma in realtà considerato dagli investigatori come il referente delle ‘ndrine in loco. “Ma quello che deve far più riflettere è che ancora una volta l’infiltrazione nelle terre del nord avviene secondo il canale degli investimenti nell’economia legale, attraverso sofisticati meccanismi commerciali, come in questo caso, dove ad essere usate erano delle cooperative di servizio nel settore dei trasporti” scrive un reportage de il Mattino di Padova, registrando amaramente che “l’isola felice” del Veneto non esiste più. Una ulteriore conferma viene da una relazione della Dia presentata in Parlamento nel 2013, la quale riporta che “le attività condotte dalla Dia, tese a contrastare l’infiltrazione della criminalità organizzata calabrese nel tessuto economico del Veneto, hanno consentito di segnalare nell’Ovest veronese e nel vicentino la presenta di ditte, operanti in particolare nel settore dell’edilizia, riconducibili ad aggregati criminali di Cutro , Delianova , Filadelfia e Africo Nuovo “.
“Se domani la mafia avesse l’intenzione di controllare il mercato economico e finanziario, oppure la gestione dell’amministrazione pubblica a Verona, come in qualsiasi altra città settentrionale, avrebbe la strada spianata” ebbe a dichiarare il dottor Guido Papalia, procuratore della Repubblica di Verona, duramente contrastato dai gruppi neofascisti e dalla Lega. Il dott. Papalia all’indomani dell’arresto del boss Giuseppe Madonia in provincia di Vicenza rilasciò una analisi molto interessante: “L’importante sistema delle tangenti e il dilagare della corruzione – sottolineava Papalia – consentirebbe infatti alla mafia di introdursi e acquisire potere più facilmente anche in questo territorio. In tal senso, tutte le città del Veneto e del Nord in genere vanno bene, perché permettono la penetrazione in un mercato finanziario in continua espansione e quindi in grado di assorbire gli enormi capitali guadagnati illecitamente nelle regioni che più sono sotto il controllo della mafia”. Una visione del problema che lascia capire come la trattativa tra Stato e mafia non solo è andata in porto ma ha portato anche ai risultati sperati. Andare a rimestare questo scenario e allestirci addirittura un processo, potrebbe alla fine rivelarsi molto pericoloso per chi voglia andare a vedere in fondo cosa è accaduto veramente.
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