E al governo, Draghi ha lanciato pesanti accuse di incapacità nel favorire la crescita. Lo aveva sostenuto nella sua prima relazione nel 2006, lo ha ripetuto ieri nella sua ultima relazione: in ottobre lascerà la carica di governatore di Bankitalia per assumere quella di presidente della Bce. E già si sta scatenando la lotta per arraffare la sua poltrona e assegnarla a un governatore «amico».
Certo, si può discutere su che modello di crescita necessita all’Italia per uscire dalle sabbie. Ai sostenitori della crescita zero, del Pil che non è il solo indicatore del livello di benessere di un paese, Draghi ha implicitamente risposto parlando di una crescita diversa nella quale privilegiare gli aspetti della solidarietà sociale, la formazione e l’istruzione, la partecipazione femminile al lavoro e la fine della precarietà. Sia ben chiaro: Draghi è un teorico del capitalismo (non a caso la sua relazione è piaciuta e molto alla Confindustria) e per questo è stato nominato governatore di Bankitalia. D’altra parte, eccetto Che Guevara, è difficile trovare governatori di banche centrali comunisti. Però Draghi non è un liberista forcaiolo,ma un liberal sociale che crede nei valori del mercato e in quelli della solidarietà sociale come valore senza il quale anche l’economia è destinata a bloccarsi. Insomma, Draghi è un riformista, che ha fatto sua una affermazione di Cavour «le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano». Ma di riforme, il governo Berlusconi non ne ha realizzate e il paese, sostiene il governatore, vive in un coacervo di intrecci di interessi corporativi che in più modi l’opprimono. Mentre occorrerebbe «unire solidarietà e merito, equità e concorrenza, per assicurare una prospettiva di crescita al Paese».
La cura proposta da Draghi non è indolore: suggerisce di tagliare di oltre il 5% in termini reali nel triennio 2012-2014 la spesa primaria corrente. Con una accortezza: i tagli non vanno fatto in maniera «uniforme», cioè in modo indiscriminato come fatto finora da Tremonti, e la manovra per il 2013-2014 va anticipata a giugno di quest’anno. Cosa che anche Tremonti sa, ma finora ha taciuto per non interferire sulla tornata elettorale.
E ancora: va ridotta la pressione fiscale sui lavoratori e le imprese, intensificando la lotta all’evasione fiscale. «Il federalismo fiscale può aiutare» ma a due condizioni: che i nuovi tributi locali siano compensati da tagli a quelli decisi «centralmente» e che il governo centrale preveda «un serrato controllo di legalità sugli enti a cui il decentramento affida ampie responsabilità di spesa».
La crescita è troppo bassa, la produttività ristagna «perché il sistema non si è ancora adattato alle nuove tecnologie e alla globalizzazione», le dinamiche retributive sono ferme da 10 anni, la crescita dei consumi delle famiglie è meno di un terzo di quella di paesi concorrenti come la Francia. La soluzione per crescere di più viene sintetizzata in otto punti che vanno dalla giustizia (ma solo quella civile) all’istruzione; dalla «concorrenza regolata» e «non privatizzazioni senza controllo», allo sviluppo delle infrastrutture; dal riequilibrio della «flessibilità del lavoro» alla maggiore partecipazione femminile al lavoro stesso; dalle regole certe nella rappresentanza sindacale a un efficace sistema di protezione sociale. Per realizzare tutto questo, Draghi fa un appello alla «unità di intenti sulle linee di fondo delle azioni da intraprendere» perché «ciò che può unire è più forte di ciò che divide». Insomma, Draghi sembra delineare un governo di salvezza nazionale, di chi ci sta. Ma è praticamente sicuro che Berlusconi non ci starà. E Draghi ne è consapevole.
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