Sempre nella polvere e mai sugli altari al contrario di Napoleone, Brunetta era mediaticamente scomparso dopo avere insultato impiegati e poliziotti, donne lavoratrici e magistrati, sinistra «di merda» at large. Ma è bastato che Michele Santoro lo invitasse nella sua ultima puntata (da vero servizio pubblico Annozero, altro che chiacchiere) e il ministro ha ripreso fiato. Tanto che qualche giorno dopo in un convegno dal titolo sbagliatissimo, «Giornata dell’innovazione», Brunetta ha rispolverato la sua cultura volgarmente stantia, definendo un gruppo di precari «l’Italia peggiore». A seguire, canovaccio noto: polemiche, lui che ci salta sopra e rivendica, altrimenti chi ne parlerebbe?
Su Internet, il ministro e le sue gesta ovviamente impazzano. Ma a coloro che usano «la rete come un manganello» (parole sue) andrebbe ricordato che anche Brunetta è oggi un precario. Un precario di quella vera «Italia peggiore» che i risultati elettorali delle amministrative e il voto referendario stanno provando a spazzare via. Se c’è un ministro barcollante e senza futuro, è lui: stressato da Giulio Tremonti che continua a non dargli un euro per le sue effimere riforme, e dalla Lega che lo ignora in quanto pasdaran berlusconiano. Insomma, un po’ di pietà.
Nel 2008, all’inizio del suo mandato, è più precario che temerario il suo attacco contro i lavoratori del pubblico impiego, chiamati «i fannulloni». Riesce a imporre il contratto separato, ma l’Avis, per dirne una, gli fa sapere che d’ora in poi la donazione di sangue verrà equiparata all’assenteismo, peggio di Dracula. Agisce sempre lontano dal vaso quando definisce «panzoni» i poliziotti (se non altro perché nemmeno lui esibisce le fisique di un Fassino) e quando strilla che le donne dei ministeri vanno a fare la spesa in orario di lavoro, facendo sgranare ulteriormente gli occhi alla collega di governo Mara Carfagna. Sui temi più cari al suo padrone, quelli della giustizia, un giorno sostiene che va sciolta l’antimafia, perché tanto (par di capire) se c’è, non esiste. E un altro giorno chiama «mostro» il Consiglio supremo della magistratura, aggiungendo che i magistrati «forse si sono un po’ montati la testa». Quel «forse» gli fa però vincere la palma del più moderato della compagine governativa in fatto di giudici e giustizia, il che può anche essere considerata l’eccezione che conferma la regola.
Ma più precario di Brunetta in questo paese c’è l’aiuto pubblico alla cultura, e infatti il ministro coglie l’occasione per mettere in piedi una guerra tra poveracci e se la prende con il cinema e con quel «culturame» (fine vocabolario fascistizzante). Se poi qualcuno di sinistra alza il dito per difendere cinema e teatro, per Brunetta ecco la «sinistra del male». O «di merda» per la precisione. Cui augura senza tema che «vada a morire ammazzata». Nell’occasione, sproloquia anche di «colpo di stato» e non si pente mai di quel che dice.
Eppure, il ministro è un precario anche lui. Pensate che, se si dimettesse come ha tante volte minacciato in polemica con Tremonti senza farlo, non lo vorrebbero nemmeno a Venezia, sua città natale, dove nel 2000 e nel 2010 è stato sconfitto per due volte a candidato sindaco.
Solo una volta era nel giusto, quando Massimo D’Alema lo chiamò «energumeno tascabile» e lui rispose: «Volgarità razziste». Ma è noto che da anni D’Alema sbaglia sempre, anche quando ha ragione.
da “il manifesto” del 16 giugno 2011
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