L’articolo che qui sotto pubblichiamo è l’unico che dia conto in qualche misura di quel che è accaduto intorno all'”art. 8″ della manovra, fino all’appello dell’ultimo minuto del segretario della Fiom, Maurizio Landini, al capo dello Stato.
Da quel che siamo in grado di ricostruire, dunque, nei giorni precedenti la votazione sia al Senato che alla Camera, c’è stato un giro di frenetiche telefonate e colloqui tra Quirinale, governo, Pd e Cgil avente per oggetto l’eliminazione dell’art. 8 dalla manovra. Non per tornare al sistema vigente (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, prevalenza del contratto nazionale di lavoro su quelli aziendali, ecc), ma per “aderire allo spirito dell’accordo tra parti sociali ” conosciuto come “28 giugno”, che prevede per l’appunto la prevalenza del contratto aziendale ma non la “retroattività” di quelli già stipulati (il “modello Pomigliano”, in soldoni).
Il “piano” alla fine concertato prevedeva che il Pd presentasse in aula – già al Senato, dato che si sapeva benissimo che poi la Camera avrebbe dovuto soltanto ratificare, per non allungare troppo i tempi dell’approvazione e inviare consì un altro “segnale negativo” ai mercati finanziari sull’affidabilità del paese. Dal canto, il Quirinale avrebbe esercitato il massimo della “moral suasion” possibile per indurre il governo – ovvero il ministro anti-lavoro Sacconi – a riscrivere l’art. 8 del decreto per renderlo “conforme” al testo del “28 giugno”.
In questo modo la Camusso /(e la maggioranza Cgil) salvava metà della faccia (l’altra metà se l’era già giocata il 28 giugno), il Pd si poteva dichiarare “sensibile alle ragioni del lavoro” pur avallando un trionfo delle imprese, il Quirnale idem. Confindustria avrebbe abbozzato tranquillamente (il “modello Pomigliano” in realtà è anche un attacco al cuore anche delle ragioni per cui esiste un’associazione delle imprese). L’unico a dover fare marcia indietro sarebbe stato Sacconi, che avrebbe però potuto anche lui trnquillamente barricarsi dietro la “volontà delle parti sociali”, che figura come unica fonte delle relazioni industriali nella sua bozza di “statuto dei lavori”.
Sarebbe rimasta fuori la Fiom e la minoranza Cgil; ma questo non poteva che far piacere alla Camusso e alla sua maggioranza.
Cos’è accaduto? Che il Pd non ha rispettato il patto. Non ha presentato alcun emendamento sull’art. 8. Non si capisce se “per non rallentare i tempi di discussione” o per mostrarsi – alle imprese – “più realista del re”. Lasciando così nell’imbarazzo il Quirinale e aprendo il varco mediatico entro cui si sono potuti potuti infilare Landini e la rabbia Fiom.
Come si vede, il posto in quella “storia” borgesiana è invero uno strapuntino…
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Francesco Piccioni
L’incostituzionalità e la presa in giro: un «odg» bipartisan
È accaduto addirittura con «l’art. 8», quel famigerato codicillo infilato lì da Maurizio Sacconi per legalizzare ex post il «modello Pomigliano», già oggetto di una condanna da parte del Tribunale di Torino. Non che cambi molto, sia chiaro. La manovra è stata approvata e ora diventa legge, operativa dal momento della pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Ma dà l’idea dell’attenzione con cui i «nostri» parlamentari lavorano, senza neppure leggere quel che viene loro chiesto di votare. In qualsiasi altro posto di lavoro verrebbero licenziati al primo giorno.
Un «ordine del giorno», insomma, vale meno della carta su cui è scritto. «Impegna» il governo e il Parlamento a «valutare gli esiti applicativi dell’art. 8 al fine di adottare iniziative volte a rivedere le disposizioni dell’articolo stesso», per renderlo «conforme agli indirizzi dell’accordo del 28 giugno», stipulato tra Confindustria, Cisl, Uil e – purtroppo – la Cgil. Nemmeno chi ha presentato l’odg – Cesare Damiano, ex dirigente Fiom ed ex ministro del lavoro per il Pd – considera rilevante questa approvazione: un governo che procede a colpi di fiducia e che teme il voto dell’aula approva tutti gli ordini del giorno, anche quelli che sono palesemente in contrasto con le scelte contenute nella manovra». Tanto…
E dire che questo diavolo di art. 8 era un po la notizia del giorno. Aveva spinto il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, a chiedere che il presidente della Repubblica non firmasse la manovra in quanto contenente una norma palesemente incostituzionale. Provocando peraltro una dura nota del Quirinale. «sorpreso» della «evidente scarsa consapevolezza dei poteri del Capo dello Stato». Il quale non può «non firmare» un singolo articolo di legge, ma soltanto respingerla in toto o firmarla sollevando rilievi. Visto il ruolo di «salvataggio del paese» attribuito a questa sbrodolata di norme, Napolitano tutto può esser disposto a fare, tranne che respingerla e inviare così l’ennesimo «segnale negativo ai mercati».
Ma Landini è tutt’altro che «inconsapevole». La richiesta era un atto politico per sollevare al livello massimo possibile l’insostenibilità istituzionale di una norma che consente agli accordi aziendali di «derogare dai contratti nazionale e dalle leggi», per di più retroattiva solo per impedire altri ricorsi giudiziari, e che – parole di Landini – «riporta il diritto del lavoro all”800». La Cgil, invece, giocando di sponda proprio con il Pd – che aveva «giurato» di presentare un emendamento sull’argomento – ha marcato tutta la propria distanza dalla Fiom rifiutandosi di «tirare per la giacca il Presidente».
Solidarietà alla Fiom è invece arrivata da Fabrizio Tomaselli, coordinatore dell’Usb e storico protagonista delle lotte in Alitalia, che ha valutato «politico e condivisibile» l’appello di Landini. Ponendo una domanda maliziosa: «Se è stato istituzionalmente legittimo, anche se per noi inopportuno, l’intervento del Presidente Napolitano per accelerare l’approvazione della manovra, sarebbe stato altrettanto legittimo, e molto opportuno, un eguale intervento per far stralciare ed eliminare dalla manovra le misure sul lavoro, sui contratti e sui licenziamenti». Può darsi anche che ci abbia provato, ma sia mancata anche a lui una «sponda» parlamentare.
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