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15 ottobre il giorno dopo. Valutazioni e commenti/2

Gli interventi di redazione di Senzasoste; Red Link; Franco Ragusa; Karla e Kamo; Unione Sindacale di Base (usb);  Laboratorio Acrobax; Rash


Cronaca e commento sulla giornata del 15 Ottobre

 

di Redazione di Senza Soste (Livorno)

La cronaca della partenza da Livorno, della composizione del corteo fino agli scontri a San Giovanni, cercando di fare chiarezza e sgombrando il campo dai ridicoli complottismi e dalla retorica.

Non è facile raccontare la giornata del 15 ottobre a Roma, per due motivi: il primo perché c’era tantissima gente ed ognuno ha visto e vissuto il corteo in base alla parte in cui era posizionato. Il secondo perché la manifestazione di sabato era già complessa di suo, per organizzazione, per composizione politica e sociale, per gli obiettivi che aveva, e gli eventi la hanno complicata ancora di più.

Ma andiamo con ordine.

I numeri

Impressionanti. Non sbaglia chi ha detto che potevamo essere 300.000. E non è un numero scontato anche se alla vigilia la speranza di una partecipazione di massa c’era. Numeri impressionanti se si tiene di conto che in passato questi numeri sono stati raggiunti con la partecipazione attiva ed economica di partiti e sindacati (Cgil o Fiom) che hanno messo a disposizione pullman a prezzi politici o gratuiti. Questa volta invece il grosso del corteo è giunto a Roma molto più spontaneamente. I pullman organizzati erano una parte che pesava molto meno sui numeri del corteo rispetto al passato e molta gente si è autorganizzata con treni, mezzi propri o pullman organizzati da movimento o intergruppi e collettivi vari.

Da Livorno

Che i numeri potessero essere imponenti si è visto fin dalla mattina a Livorno dove si sono ritrovate oltre 300 persone a cui poi se ne sono aggiunte altre a Rosignano e Cecina. Il tutto su un appuntamento lanciato dal Comitato “Dobbiamo Fermarli” e rilanciato solo dal nostro sito e da tanti ragazzi su Facebook, ma completamente ignorato dai media “mainstream” (Il Tirreno ad esempio nonostante i numerosi invii dell’appello per l’appuntamento alla stazione ha completamente ignorato la cosa). Numeri grossi se si considera che da Livorno sono partite anche auto private e due pullman organizzati da Rifondazione Comunista.

Alla stazione c’erano tanti giovani, un’età media molto bassa di poco più di 20 anni e molti “non militanti” che tuttavia sentivano il grande evento secondo il refrain: “Se non si fa qualcosa ora quando c’è da farla? Cosa ci devono fare per farci svegliare?”. Parole semplici che tuttavia indicano che nell’immaginario popolare e giovanile la misura è colma. Non sarà certo un corteo che cambia la storia ma questa voglia e questa presenza deve essere di stimolo per tutti coloro che sui territori si impegnano quotidianamente e devono rendersi conto che per molti, specialmente giovanissimi, la misura è colma e la sensazione è che tanto ormai il futuro non si intravede nemmeno e c’è veramente poco da perdere. Basta leggere i dati della disoccupazione giovanile nella nostra città.

A Roma

Scesi a Stazione Termini, appena i giornalisti che attendevano ai binari i treni hanno appreso che il grosso delle persone scese dal treno erano di Livorno è partito subito il tam tam sui livornesi e la curva nord presenti a Roma tanto che sia Repubblica che il Corriere della Sera hanno subito riportato la notizia a mezzogiorno. Questo aneddoto per far capire come il giornalismo vada avanti a colpi di luoghi comuni, di frasi fatte, di conoscenze e interpretazioni vecchie di 10 anni, di messaggi reimpostati da dare in pasto ai lettori sprovveduti. Questa impostazione, iniziata già da parecchi giorni, non è stata abbandonata per tutta la giornata del 15 e ci rincorrerà anche per i giorni prossimi. Leggete questo articolo ridicolo di quello pseudoquotidiano chiamato La Nazione sugli ultras del Livorno negli scontri e fatevi un’idea (uno degli indizi della presenza dei livornesi starebbe nella scritta ACAB sui muri della città, sigla, in inglese, utilizzata in tutto il mondo per offendere i poliziotti).

La prima sensazione in piazza è stata subito che eravamo in un corteo non controllato o controllabile perché nessun soggetto organizzato voleva o poteva controllare la piazza. La manifestazione d’altronde era nata come un appello europeo dal basso e al massimo qualcuno poteva provare a metterci un cappello politico senza però essere in grado di portare forze e organizzazione in piazza per determinare il corteo.

Subito in via Cavour questa cosa è stata palese visto che ogni spezzone aveva preparato azioni (simboliche o concrete) in modo indipendente e vari gruppi più o meno grandi sceglievano i propri obiettivi in modo del tutto autonomo. E a metà via Cavour infatti sono state dati alle fiamme due Suv e un paio di banche oltre che sfondate le vetrine a una catena di supermercati ad opera di un altro spezzone.

Il corteo poi è proseguito per i fori imperiali e il colosseo, come previsto, mentre dalla parte di piazza Venezia (la zona dei palazzi del potere), blindati e centinaia di poliziotti impedivano eventuali deviazioni.

I problemi veri sono iniziati a poche centinaia di metri da Piazza San Giovanni dove la polizia ha caricato il corteo rompendolo in tre tronconi dopo un’altra serie di incendi a auto e cassonetti e l’attacco a una casermetta della Guardia di Finanza. E da qui la polizia ha iniziato uno show conclusosi a piazza San Giovanni con i blindati montati fino in cima alla piazza a disperdere con gli idranti e a folle velocità la folla di manifestanti (molti dei quali nemmeno si rendevano conto cosa stava succedendo nella via parallela alla piazza) (video)

Da qui è partita una reazione di massa, che non c’entra niente con le azioni del corteo, e scontri di due ore per impedire alla polizia di entrare in piazza San Giovanni. Due ore di caroselli coi blindati gettati a folle velocità e dall’altra parte centinaia e centinaia di giovani che tenevano la piazza con sassi e bombe carta(video)

L’apice è avvenuto quando i blindati hanno cercato di entrare nella piazza al lato di San Giovanni dove stava confluendo il corteo. Per fare ciò i blindati hanno speronato il camion dei Cobas spingendolo di forza nella piazza dei manifestanti con gravi rischi per l’incolumità delle persone. Poi c’è stato l’incendio della camionetta dei carabinieri che si è fermata in panne dopo che aveva cercato di rincorrere le persone fino sulle scalinate della chiesa rimanendo incastrata.  Gli scontri poi sono continuati per altre 2 ore in altre zone della città.

Commento

La giornata del 15 ottobre era nata male. Per molti è finita peggio mentre per altri è andata come era pienamente preventivabile che andasse.

Era nata male perché è stato scelto un “format”, quello della grande manifestazione autunnale con passeggiata e comizio finale che oltre ad essere desueta, non rispondeva certo alle esigenze di chi ha partecipato in massa sull’onda degli eventi nelle altre città europee dove, anche se con diverse forme e contenuti, la parola d’ordine era l’assedio ai palazzi del potere.

L’Italia però non è la Spagna, ha altre tradizioni di movimento, altri numeri (più grossi) e altra organizzazione. Era improbabile riproporre il modello della “acampada”, anche perché in Italia le tende vengono caricate dalla polizia appena fa buio. Ma era sicuramente più legittimante cercare forme e forzature per andare verso i palazzi del potere e cercare di rimanere lì. In piazza era tangibile questo desiderio. Sia chiaro, per andare laggiù c’era da fare forzature e scontri perché la questura era stata irremovibile vietando quella zona. Quindi deve essere altrettanto chiaro a chi si straccia le vesti al primo scontro, che per come è oggi la situazione, senza forzature e rischi non vai da nessuna parte e l’unica alternativa è quella della passeggiata autunnale sotto il sole romano che pare parecchio inappropriata per la situazione che c’è in Italia. Passeggiata che naturalmente fa comodo a chi ha velleità elettorali o a chi vuole riniziare una stagione sull’onda dei social forum 2001.

Detto questo, non ci nascondiamo certo per dire che certe scene viste nel corteo non ci sono piaciute perché certi atti sono poco comprensibili dalla massa delle persone in corteo oltre che pericolosi (in primis il dare fuoco alle macchine mentre sta passando un corteo di centinaia di migliaia di persone). Fino a scadere nel qualunquismo che non è certo dote rivoluzionaria. Le banche buttate giù vengono comprese dai più, atti vandalici generici no. Era una manifestazione senza obiettivi precisi e ciò ha dato spazio a qualunque cosa.

Di questa manifestazione, tuttavia, non è tutto da buttare, anzi. I numeri sono giganteschi e l’età media dei partecipanti molto bassa. Due ingredienti che danno linfa, a partire dai territori, per lavorare affinchè ci sia una reazione politica quotidiana a una situazione di scippo permanente alla gente per foraggiare un sistema economico e finanziario che negli ultimi 20 anni nel mondo “occidentale” ha visto concentrare tutte le ricchezze in mano ad un numero sempre più esiguo di persone e ha visto peggiorare le condizioni concrete di vita delle fasce più povere e deboli della popolazione.

Riaprtire dai territori dunque. Perché è tangibile nell’aria che ci sia una necessità infinita di parlare di politica, di darsi modi e pratiche concrete per combattere concretamente questa crisi e lo scippo che ne consegue. E per fare ciò serve riprendere luoghi pubblici, dibattiti collettivi e confrontarsi. Sabato non è stato possibile, ma gestire una piazza di 300.000 persone non è certo facile. Specialmente in una situazione di tensione come si sta vivendo in Italia.

Basta con luoghi comuni o frasi prestampate ripetute da 10 anni

Sia piaciuta o no la giornata di sabato, non c’è cosa più degradante e politicamente diseducativa che ripetere le solite frasi fatte per descrivere una situazione o giustificare una cosa che non è andata come si vorrebbe. Facciamo un piccolo elenco.

Solo in Italia ci sono state violenze, siamo proprio un paese impazzito”

Ma perché, la situazione che c’è in Italia dopo 17 anni o poco meno di berlusconismo è paragonabile agli altri paesi? Pensiamo che il popolo italiano abbia reagito fino ad oggi con dignità e decisione a questa banda al potere? E perché, nelle settimane e nei mesi passati, gli scontri di Atene, la violenza improvvisa scoppiata a Londra, le banlieue parigine, gli sgomberi e le cariche a Madrid e Barcellona non appena gli indignados hanno alzato un po’ il tiro, le centinaia di arresti a New York e altre città americane, non sono mai esistiti? In questi ultimi mesi eravamo noi gli addormentati.

I soliti infiltrati Black Bloc pagati da qualcuno”

Cosa c’è di così strano nel fatto che in Italia ci sia qualche centinaia di persone che sanno fare determinate azioni in corteo e che si muovano con l’obiettivo di scontrarsi con la polizia? Ci sono sempre stati. Molti si chiedono perché la polizia non intervenga. Quando interviene lo fa a modo suo e iniziano scontri poi più grossi di quello per cui interviene. Che una questura in combutta con un governo possa strategicamente lasciare che qualcosa accada perché fa comodo, oppure che infiltri dei provocatori è sempre successo e risuccederà. Ma non è che a ogni vetrina rotta o ogni scontro si deve per forza inneggiare all’infiltrato. Anche perché alla lunga si diventa ridicoli. Che la gente impari a motivare perché non è d’accordo con certe pratiche e quali misure servirebbero per evitarle. Ma smettiamola con le dietrologie e i complottismi. Da quello che abbiamo potuto vedere noi, in piazza San Giovanni non c’erano i fantomatici black bloc ma migliaia di giovani che facevano gli scontri con la polizia. Ognuno dia il giudizio che ritiene su questo fatto, ma la realtà è questa.

Pochi cattivi hanno impedito di manifestare a tanti buoni”

Posto il fatto che tanti gesti e tanti atteggiamenti dei “pochi” possano essere legittimamente bollati come idioti, la moltitudine dei buoni non s’è ancora rotta i coglioni di fare le passeggiate per Roma? Cosa propongono? Si ricordino che tutto ciò che potrebbe essere proposto in alternativa al pascolo di massa per le vie di Roma comporta forzature, rischi e sacrifici perché nessun apparato poliziesco te lo permetterà. La rivolta, il cambiamento, l’indignazione (sostantivo bruttissimo che implica un moto di pensiero ma non di azione concreta che porti un cambiamento), chiamatela come vi pare, non è un pranzo di gala. Servono soluzioni e pratiche più intelligenti? Troviamole. Ma basta con le sfilate. E le migliaia di ventenni che erano in piazza sono i primi a pensarlo.

Postilla finale: Draghi ha detto che i giovani hanno ragione e che le violenze sono state un peccato. E’ stato senz’altro il commento che più ha dato forza e legittimazione a chi è stato protagonista delle violenze e che ora potrà pensare: “Se Draghi pensa che sia sbagliato, allora è giusto”. Come dargli torto. Ricordiamoci che il facinoroso Draghi e le sue velleità di governo tecnico saranno quelle che ci devasteranno. Il governo tecnico è quella forma di governo che, non avendo da confrontarsi con l’elettorato nell’immediato futuro, ti apre il culo definitivamente. Auguri.

red. 16 ottobre 2011

 

Alcune considerazioni a caldo sulla manifestazione del 15 ottobre

di Red Link

Com’era prevedibile con la mobilitazione ancora in corso è subito iniziato il rituale delle condanne e della caccia all’estremista o all’infiltrato, a seconda delle preferenze, che avrebbe rovinato le ragioni stesse della manifestazione del 15 ottobre.

Diciamo subito che contro questa ennesima criminalizzazione accompagnata dal solito richiamo all’unità delle persone di “buona volontà” è necessario reagire subito ed energicamente senza accettare un terreno difensivo, e questo a prescindere dalla valutazione sulla opportunità o meno delle azioni conflittuali messe in atto da una parte consistente del corteo, su cui torneremo più avanti.

Occorre rispedire al mittente questa giaculatoria perché non si può nemmeno accettare il dialogo o la necessità di giustificarsi, con chi finge di scandalizzarsi per qualche vetrina sfondata e qualche macchina bruciata, mentre contemporaneamente manda i propri eserciti a bombardare popolazioni inermi come avviene in Libia ed in Afghanistan. Non stiamo parlando di violenza figurata quindi, ma di quella concreta che ha fatto migliaia di vittime “vere”; e continua a farne tutti i giorni anche se con il plauso delle massime istituzioni che ci spiegano ogni giorno la necessità di portare la pace e la difesa ai deboli. Violenza vera è quella esercita nelle carceri e nei CIE quotidianamente o quella praticata per conto dei nostri governanti dagli ascari pagati dall’altra parte del mediterraneo. Se passiamo a quella indiretta o indotta, potremmo citare le migliaia di infortuni sul lavoro, i licenziamenti di massa che spesso spingono al suicidio o a patologie croniche che ti segnano per tutta la vita e se ti va bene diventi solo un morto di fame. O alla condizione di estrema precarietà cui sono costretti proprio una parte di coloro che si sono resi protagonisti degli scontri in piazza. Una condizione su cui pure si finge di versare qualche lacrimuccia di comprensione, salvo descriverli come bamboccioni, poiché non accettano di andare a lavorare per meno di 500 € al mese, o criminalizzarli se decidono di manifestare, quando se ne presenta la possibilità, tutta la rabbia accumulata che non possono normalmente esprimere per la condizione atomizzata e ricattatoria cui li costringono quelle leggi emanate dagli stessi che fanno finta di commuoversi per la loro situazione. Per stare al tema più attinente alla manifestazione del 15 potremmo ricordare il randello rappresentato dal “giudizio dei mercati” e dal debito pubblico in nome dei quali si sta sferrando un attacco inaudito alle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, nel mentre la concentrazione della ricchezza diventa sempre più polarizzata.

Ma l’elenco delle violenze quotidiane di cui si rende responsabile la borghesia ed il suo stato sarebbe interminabile e davvero sorprende che la questione dirimente dovrebbe essere quella di condannare o isolare chi ha rotto qualche vetrina. Non vediamo in giro cori di indignazione o di dissociazione di fronte a questa violenza concentrata rappresentata dalla stato, dalle sue istituzioni e dai suoi apparati repressivi.

Per tale motivo chiunque affronti il tema degli scontri sostenendo che in assoluto e per principio bisogna condannare l’uso della violenza da parte dei movimenti, dimenticandosi di denunciare l’uso mostruosamente più consistente che ne fa lo stato e chiamando la polizia per “isolare i facinorosi” per noi non è in buona fede ma mesta nel fango sapendo di farlo e lo lasciamo quindi alle proprie giaculatorie.

Vi sono poi coloro che esprimono le critiche dall’interno della mobilitazione sostenendo che le azioni conflittuali stravolgono il senso della manifestazione annullando il suo effetto comunicativo e di chi è sceso in piazza per manifestare pacificamente.

Qui il crinale si fa più sottile ed è difficile distinguere tra quel settore di ceto politico che si sente investito di non si sa quale rappresentanza del movimento e va in paranoia se questo suo ruolo risulta messo in discussione da un ondata che sente di non poter controllare,  e coloro sinceramente preoccupati che la degenerazione della manifestazione sia controproducente, anche se strabicamente ne addossano la responsabilità non all’intervento poliziesco ma a chi ha deciso di esprimere in maniera incisiva la propria rabbia.

Ancora una volta, però, e non importa se in buona o cattiva fede, si decide di ignorare come si è arrivati a quella mobilitazione. In primo luogo il divieto delle istituzioni di consentire un percorso che permettesse di esprimere il proprio dissenso intorno ai palazzi delle istituzioni. Così mentre i nostri media ci fanno vedere le mobilitazioni nelle altre capitali mondiali dove i manifestanti arrivano direttamente sotto la borsa e i palazzi del governo, strizzando l’occhio come segno di comprensione verso quei movimenti, quando si tratta dell’Italia il fatto che ciò non sia più possibile lo si assume quasi come un dato scontato. Questa però non viene considerata violenza ma ordinaria amministrazione che sia pure a malincuore non si può fare altro che accettare.

Inoltre questa manifestazione, almeno in Italia, non ha mai avuto padrini e copyright. Essa è nata su di un appello inizialmente lanciato dalle piazze spagnole e fatto proprio dalle più disparate realtà di movimento e non. Vero è che ci sono stati vari tentativi di costituire comitati promotori, ma questi sono stati da subito in concorrenza/competizione tra di loro, sia per i contenuti politici che intendevano mettere al centro della mobilitazione ma soprattutto per questioni di “bottega” per chi doveva candidarsi a rappresentare tale movimento. Specialmente quei settori che intendevano replicare fuori tempo massimo il defunto social forum, hanno messo in atto un tentativo, nemmeno tanto implicito, di trasformarlo, in una manifestazione che desse la spallata decisiva al governo Berlusconi, e spianasse la strada ad un nuovo governo di centro sinistra. Un governo di quelle forze che non esitano a candidare Profumo come nuovo leader governativo (quello della manovra da 440 miliardi di €), che si affrettano a ribadire di voler dare immediata operatività alle richieste della BCE e della Banca d’Italia non appena prenderanno possesso dell’esecutivo, che criticano ogni giorno il governo Berlusconi perché non si dà una smossa seria nell’attaccare le pensioni e nel tagliare in maniera consistente la spesa pubblica. 

Per tali ragioni non si è mai arrivati ad un vero coordinamento di tutte le realtà che intendevano partecipare alla manifestazione. Ma era di pubblico dominio che settori significativi di movimento intendevano esprimere in maniera incisiva la propria protesta contro il divieto al corteo di raggiungere i palazzi delle istituzioni, così come era esplicito l’intento di sanzionare sedi e simboli del potere economico/finanziario e politico.

Quindi non vi è stata espropriazione di un presunto programma della manifestazione da parte di nessuno ed ognuno si assumeva la responsabilità della propria scelta di stare in piazza e del come starci.

Venendo poi allo svolgimento della manifestazione va ribadito che questa è degenerata quando la polizia ha cominciato a caricare brutalmente il corteo con lancio di lacrimogeni per spezzarlo e successivamente ha usato gli idranti e lanciato autoblindo a folle velocità sulla folla. Tale atteggiamento ha fatto montare la rabbia anche in settori che non erano scesi in piazza con l’intenzione di scontrarsi. A noi non è parso di vedere questa maggioranza del corteo che prendeva le distanze da chi si scontrava con la polizia, ma anzi molta solidarietà e comprensione quando non proprio il coinvolgimento negli stessi scontri per le provocazioni poliziesche. Una verità che si è lasciato sfuggire lo stesso cronista di Rai News da Piazza S. Giovanni quando, con rammarico, ha dovuto comunicare nel corso della diretta che i protagonisti dello scontro non erano affatto isolati dal resto dei manifestanti, molti dei quali tifavano apertamente, prima che la versione “ufficiale” confezionasse la narrazione dello sparuto gruppo di provocatori isolato e contestato dalla gran massa del corteo. Non si spiega altrimenti come un “ridotto” gruppetto abbia potuto resistere per ore alle cariche di polizia riuscendo persino, ad un certo punto, a respingerla dalla piazza. In verità uno degli aspetti che maggiormente ha fatto inferocire i rappresentanti istituzionali tanto di destra quanto di sinistra è stata proprio la determinazione dimostrata da chi era in piazza insieme al fatto che nonostante le notizie sulle rabbiose cariche in corso il corteo non si è disperso e non ha nemmeno smobilitato.

Questo scenario rompe con le rituali sfilate in cui al popolo viene consentito ogni tanto di esprimere il proprio dissenso a condizione che lo faccia molto educatamente e garbatamente tornandosene poi a casa con il dubbio se sia servito a qualcosa e se qualcuno se ne sia accorto. Questo, infatti, è l’argomento assolutamente infondato che viene brandito contro le manifestazioni che finiscono come il 15: le violenze avrebbero oscurato le ragioni della mobilitazione annullando l’effetto che ci si prefiggeva con essa di raggiungere. Forse abbiamo vissuto in un altro paese negli ultimi anni ma a noi risulta che le rituali sfilate, anche numerose come quella di ieri, se va bene si meritano una citazione nei titoli di apertura o di coda, soprattutto se non sono promosse dalle organizzazioni sindacali o politiche concertative. Cosa per la quale, però, non abbiamo mai visto in passato cori di indignazione per questa vera e propria espropriazione violenta del diritto all’informazione e alla comunicazione da parte dei media tanto statali quanto privati.

Della manifestazione di ieri, oltre ai partecipanti e gli amici e conoscenti non se ne sarebbe accorto proprio nessuno se non ci fossero stati gli scontri di piazza. Questo non vuol dire che programmaticamente vanno pianificate sempre azioni di forte impatto conflittuale in ogni manifestazione, ma almeno la si smetta con questa infondata argomentazione dello stravolgimento delle ragioni della protesta.

Piaccia o non piaccia il messaggio che è arrivato il 15 a tutta la popolazione, nonostante la rabbiosa schiuma di tutti i commentatori, è che c’è stata una grandissima manifestazione all’interno della quale c’era una componente consistente che ha deciso di esprimere in maniera combattiva la propria rabbia e la propria opposizione alle politiche che colpiscono tutti.

Che la sfida in atto, con la crisi sistemica in corso e le politiche messe in atto dalle istituzioni nazionali ed internazionali, richieda una estensione della mobilitazione ed un livello di radicalità ancora maggiore, soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi e l’indipendenza politica dalle istituzioni e dai soccorritori del capitalismo, è un altro conto.

Chi si illude che mobilitazioni pur significative, come quella del 15 ottobre, possano essere sufficienti ad ottenere modifiche sostanziali delle politiche in atto da parte delle istituzioni si adagia in una logica autorereferenziale ed illusoria.

La critica che ci sentiamo di fare da parte nostra a chi ha scelto di stare in piazza in forma fortemente conflittuale è proprio questa. Le dimensioni della manifestazione e la partecipazione anche al confronto con la polizia dimostrano che non si è trattato di un’iniziativa che ha coinvolto solo il circuito degli attivisti ma è riuscita ad attrarre significativi settori, soprattutto giovanili, che hanno visto in essa un’occasione per esprimere la propria insofferenza ed il proprio malessere. Nonostante ciò bisogna essere consapevoli che siamo ancora ben lontani dal coinvolgimento massiccio di quell’universo variegato che si nasconde dietro il termine di precarietà e meno ancora dei lavoratori che formalmente hanno ancora un posto di lavoro stabile.

Troppo spesso tra gli attivisti si riproduce la semplificazione di identificare la propria soggettività politica con i settori sociali di classe che si pensa di coinvolgere nella lotta. O peggio, si parte dal proprio sacrosanto antagonismo verso le istituzioni e contro questo sistema sociale fondato sullo sfruttamento, per esprimerlo in tutte le occasioni anche con le forme di lotta più radicali. Il rischio è quello di cadere in un circolo vizioso finalizzato allo scontro e per lo scontro, che appunto può diventare autoreferenziale e non riuscire a creare le condizioni per l’estensione della lotta con il coinvolgimento dei veri soggetti che possono essere insieme a noi gli artefici di un cambiamento radicale degli attuali rapporti sociali. Come si vede si tratta di una critica ben diversa da quella messa in campo dal pensiero mainstream tanto di destra quanto di sinistra.

Non è pensabile infatti procedere solo per scadenze di mobilitazioni che si succedono, sia pure in forma fortemente conflittuale, senza pensare a forme di collegamento e di azione quotidiana che diano radicamento e spessore al movimento.

Ma soprattutto non è pensabile che ci si possa differenziare da chi intende riproporci tanto utopisticamente quanto riformisticamente un “capitalismo dal volto umano” solo esprimendo una maggiore radicalità nelle forme di lotta.

L’altro dato che ci ha colpito, infatti, nella fase preparatoria della manifestazione del 15 ottobre è stato proprio il concentrarsi quasi unicamente sulla necessità di dare vita a forme di conflitto radicali più che sui contenuti, quasi dando per scontato che gli obiettivi fossero gli stessi per tutti coloro che erano in piazza.

Non è così purtroppo, e dietro i discorsi e le parole d’ordine di diversi organismi che pure hanno dato vita alla manifestazione si intravedono proposte fuorvianti che invece di affrontare il male alla radice pensano di poter rimediare con i pannicelli caldi.

Certo le forme di lotta radicali sono un primo spartiacque con chi pensa di utilizzare il movimento per propri fini elettorali e per rivendicare un capitalismo buono contro quello degenerato e cattivo creato dalla finanza e dai cattivi politici, ma ciò non basta. Se non separiamo le nostre prospettive in maniera netta da tali tendenze anche sui contenuti e sulle rivendicazioni che vogliamo sostenere rischiamo di trovarci ancora una volta espropriati ed utilizzati nonostante tutta la nostra conflittualità espressa nelle mobilitazioni di piazza.

Ma questa voleva essere solo una valutazione a caldo della mobilitazione del 15 ci sarà tempo e modo per tornare su tali questioni che impongono un salto di qualità complessivo all’intero movimento se vogliamo essere all’altezza della sfida cui siamo di fronte.

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Tutta colpa dei black block se la vista si accorcia?

 

Di Franco Ragusa

 

Confesso di non avere ancora le idee chiare circa il fenomeno dei cosiddetti black bloc, ma, francamente, di fronte alle borse che bruciano centinaia di miliardi di euro al giorno, la speculazione finanziaria che sta strangolando buona parte dei paesi europei, nonché il governo occulto delle agenzie di rating e dei governatori delle banche centrali ed europea, con conseguenti condizioni di vita precarie che avanzano (questo il bel “risultato” finale), trovo sorprendente che gli incidenti della manifestazione di sabato 15 ottobre a Roma possano aver raggiunto una valenza tale da monopolizzare la discussione, anche e soprattutto nelle file dell’opposizione.

I distinguo hanno finito per contare più dei temi, per cui, paradossalmente, chi doveva e dovrebbe trovarsi sul banco degli imputati per il drammatico peggioramento delle condizioni di vita, presenti e future, ne ha di che sentirsi forte.
Un’inversione politica dei ruoli attraverso la quale sono state attribuite, direttamente o indirettamente, responsabilità e compiti mancati a tutti coloro che hanno avuto la sola colpa di essere scesi in piazza senza organizzazione e cappelli politici, ma con un unico sentire comune: così non si può più andare avanti e tanta voglia di democrazia.
Un’operazione di mistificazione della realtà che va quindi respinta con decisione: le violenze del 15 ottobre sono un problema che riguarda la politica del Palazzo e non altri, sia che si tratti di “violenze” dall’oscura matrice, che di spezzoni dell’antagonismo dai modi spiccioli.
Qualunque cosa siano questi black bloc, se infiltrati, semplici teppisti o espressione di un disagio che non riesce a trovare altre forme di “confronto” con quel governo occulto dell’economia che ha di fatto ridotto a mera ritualità e fastidio tutti i meccanismi democratici, la natura e l’urgenza dei problemi da rimuovere non cambia.
Sarebbe quindi il caso di tornare ad occuparsene, evitando di cadere nei tranelli tesi dai soliti sciacalli della politica.

 

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Karla e Kamo

Gli insegnamenti della “giornata romana”: spontaneità delle masse, organizzazione, partito

Un fatto è certo: l’irrompere prepotente delle masse sulla scena sociale ha vanificato, in un attimo, le pretese egemoniche del neoriformismo. La giornata del 15 ottobre, che una logica interamente da “ceto politico” voleva trasformare nel “rituale” della manifestazione del dissenso, è interamente saltata. Gli imbonitori di turno, che si apprestavano a concludere la “sfilata colorata e giocosa”, con comizi tragicomici sono stati riportati, dalla materialità dei fatti, dentro la sobria concretezza che la crisi impone. Di fronte a ciò non hanno potuto fare altro che, in fretta e furia, alzare i tacchi. Dopo avere, per intere settimane, lavorato affinché le masse non approdassero sotto i Palazzi si sono ritrovati la Strada dentro casa. Palesemente, dentro la crisi, non è sufficiente qualche intrigo di corridoio per arginare la rabbia e l’odio di classe. Dal 15 ottobre, i nuovi cani da guardia, se ne tornano con le pive nel sacco.
I plausi di Draghi e consoci erano già pronti, tutti erano più che disposti ad accogliere le ragioni dell’indignazione, sempre che questa non arrivasse a mettere in discussione realmente le politiche lacrime e sangue delle borghesie imperialiste, l’odio di classe ha mandato, fuor di metafora, in fumo l’intera operazione. Chi sperava di trovarsi di fronte a un nuovo ’68 è rimasto profondamente deluso. Nell’aria non aleggia alcun: sex, drugs and rock ‘ll piuttosto un’insorgenza che, fatte le tare del caso, rimanda a Genova ’60, Piazza Statuto o Corso Traiano.
Nonostante tutti i pennivendoli di regime facciano a gara per circoscrivere i “fatti di Roma” a un manipolo di facinorosi, e pertanto estranei allo “spirito” della manifestazione, sono immediatamente smentiti dagli stessi filmati e dalle foto che fanno bella mostra sui siti dei loro giornali. La dimensione di massa di quanto accaduto può essere posta in discussione solo da chi, per principio e interesse di casta, non la vuole e quindi non la può vedere. Dopo il 15 ottobre, il neoriformismo, ha capito che l’ipotesi di proporsi come cogestore della crisi non sarà un’impresa né facile, né indolore.
Dentro la crisi il sogno, o l’incubo, della mediazione socialdemocratica perde ogni giorno che passa sempre più pezzi. I costi reali della crisi si riversano, anche dentro i territori del vecchio Primo Mondo, su quote sempre più ampie di proletariato, classe operaia, lavoratori intellettuali, piccola borghesia finendo per lambire anche strati di media borghesia. I fatti hanno la testa dura e non saranno le parole di qualche politico naif a modificarli. Dalla “giornata romana”, pertanto, non si torna indietro. Nessun potere, nessun Governo della borghesia imperialista è in grado di accogliere, anche solo minimamente, i bisogni delle masse. In tale contesto, lo spazio politico dei neoriformisti, non può che assottigliarsi di più ogni giorno che passa e correre tra le braccia di Bersani non gli risolve il problema, semmai lo aggrava.
Ma, una volta accantonate le svariate suggestioni che le immagini obiettivamente suscitano, chiediamoci che cosa è accaduto dentro la “giornata romana”? Dentro quale composizione di classe si è consumata la “giornata romana”? Quali sono, da un punto di vista leninista, le indicazioni che da questi fatti bisogna trarre? A queste domande occorre saper rispondere, qui e ora, poiché se è vero che vi sono giornate che valgono decenni è altrettanto vero che è dentro questo tempo che, per un’organizzazione leninista, si pone concretamente la questione di cogliere l’occasione. Non sciogliere questi nodi significa, di fatto, delegare alla spontaneità i compiti di partito finendo così con l’accodarsi alle masse anziché mettersi alla loro testa. Ieri, in piazza, si è assistito esattamente a ciò. Né aderire, né sabotare non può essere parola d’ordine e di programma. Se, come abbiamo sostenuto, l’attuale Governo, perché da un punto di vista di classe abbia un senso, occorre farlo cadere nelle piazze è necessario affrontare senza indugi i problemi che la “giornata di Roma” ha posto sul tappeto. Ricordiamoci Lenin di fronte alle giornate moscovite. Lì, Lenin, ha misurato per intero il portato strategico del bolscevismo. Ne si è eredi solo se in grado di starne all’altezza. Tutto il resto è vuoto chiacchiericcio.
Il primo aspetto che va oggettivamente rilevato è la spaccatura che si è verificata dentro al corteo. Da un lato vi è stato chi ha portato spontaneamente l’assalto ai Palazzi dall’altro chi ne ha preso le distanze. Nella piazza romana del 15 ottobre si è riprodotto in maniera esponenziale quanto accaduto nella primavera francese del 2006. Anche in quel frangente, nonostante la piazza comune, il conflitto tra banlieuesards, studenti dei professionali e dei tecnici da un lato e universitari e studenti liceali dall’altra ha raggiunto toni e livelli spesso non mediabili. Due modi diversi di dire no al liberismo e al dominio del capitalismo globale che sottendono postazioni di classe distanti (ancora per quanto?) tra loro. Come tra questi due mondi vi sia una visione della crisi, e dell’uscita da questa, a dir poco diverse è tanto vero quanto banale.
Esemplificativa e paradigmatica al contempo la “linea di condotta”tenuta nel corso della “giornata romana”dai Cobas. Di fronte all’irruenza delle masse le maestre di ruolo e gli impiegati pubblici strutturati, aderenti al “partito – sindacato” Cobas, hanno provato a farsi polizia. Lo hanno fatto, a dire il vero, in maniera piuttosto buffa e grottesca ostentando un “servizio d’ordine” in odor d’infarto e osteoporosi e, questo il dato fondamentale, ben distante dall’aver mai compreso sino in fondo che la rivoluzione (e quindi la lotta di classe) non è un pranzo di gala. Trincerati dietro i loro residuali “privilegi” di impiegati pubblici odiano, con la medesima intensità, sia il Ministro Brunetta e la sua collega Gelmini i quali, senza troppe remore, gli ricordano ogni giorno di più che il loro tempo è finito; sia le masse proletarie senza volto che gli preannunciano la storia del loro futuro. Imprigionati dentro il mondo di ieri non possono che combattere, perdendole in continuazione, battaglie di retroguardia. Quanto accaduto all’interno della loro roccaforte, la scuola pubblica, negli ultimi anni qualcosa dovrebbe ben dire. Nonostante le loro reiterate agitazioni simboliche, ritualistiche, gioiose, festose e colorate la scuola pubblica è andata, senza clamori di sorta, a puttane mentre, dei loro scioperi, “occupazioni”, girotondi e via dicendo non è rimasto traccia.
La loro proletarizzazione è visibile persino ai ciechi ma, nonostante ciò, quando si arriva al dunque, a emergere è la cornice del decoro tipico dell’impiegato pubblico il quale, per definizione, è pur sempre garante, qualunque essa sia, della statualità. Come in un cattivo remake dei romanzi di Roth i Cobas si cullano dentro l’immagine dell’Impero Austroungarico mentre, la stessa Vienna, è ormai sotto assedio. Ieri, mentre il proletariato precario cercava con calma e pazienza di spiegargli le ragioni di quella “forma di lotta”, il loro baldanzoso “servizio d’ordine” ha provato a “farsi stato”. Sono state sufficienti un paio di urla e tre spintoni tre per riportarli alla realtà. Come tutti i residui delle ere passate questi segmenti sociali non possono far altro che rimanere stritolati dai processi di modernizzazione. Chi, tra questi, sarà in grado di comprendere dove butta il vento potrà, forse, trovare una collocazione onorevole e di base dentro il fronte di massa proletario mentre, agli altri, non rimarrà altro da fare che contemplare il mondo rimpiangendo il tempo che fu insieme alle vantate mire leaderistiche.
Il secondo nodo che occorre provare a sciogliere riguarda la “composizione di classe” che ha fatto saltare le diversamente declinate ipotesi neoriformiste. Si tratta di un lavoro enorme poiché queste sono il prodotto diretto della nuova fase imperialista e, per comprenderle, non abbiamo altro che un metodo. Se, come appare palese, la nuova fase imperialista presenta connotazioni in gran parte diverse da quella che ci ha preceduto è del tutto privo di senso recitare come un mantra i “classici” ma occorre ricordare che i “classici” sono diventati tali perché hanno soppiantato un’ortodossia diventata nel frattempo un insieme di vuote e inconcludenti retoriche. Quelle masse che, nella “giornata romana”, hanno rotto la pace sociale incarnano una condizione proletaria che deve essere studiata a fondo perché solo maneggiando con maestria l’oggetto il soggetto può sensatamente farlo proprio. Se ciò non accade tra oggetto e soggetto si apre un solco insormontabile rendendo obiettivamente irrisolvibile il rapporto dialettico tra spontaneità e organizzazione. Se, il marxismo, non è un dogma ma una guida per l’azione mai come oggi la necessità della teoria politica è un problema pratico. Senza questo sforzo collettivo delle avanguardie leniste il rischio concreto che, nella fase attuale, i comunisti siano relegati a semplici spettatori o, nella più entusiasmante delle ipotesi, tifosi dell’agire delle masse è molto di più che una semplice ipotesi di scuola. Studiare, fare inchiesta, vivere dentro le masse, andare a scuola dalle masse e, al contempo, mettersi alla testa delle loro rivendicazioni più avanzate , anticipare il divenire del tempo storico è la sfida dei tempi. Tuttavia non partiamo proprio da zero. Quando, pochi mesi addietro, su questo giornale si scriveva che Rabat chiama Torino e Algeri chiama Parigi pur nella sua parzialità si metteva a fuoco un tema: la dimensione immediatamente internazionale del conflitto e il blocco proletario intorno al quale deve essere costruita l’organizzazione comunista. Quell’intuizione e indicazione ci pare necessario coltivare con determinazione.
Giunti a questo punto, provando in questo modo a rispondere al terzo quesito, dobbiamo chiederci chi, tra le due anime e le due tendenze presenti dentro la “giornata di Roma”, rappresenta il nuovo che nasce e chi, tra i due è il vecchio che non vuole morire. Chi, in poche parole, anticipa il futuro e chi, obiettivamente, incarna il mondo di ieri. Si tratta di “osare” un’operazione non distante da quella compiuta da Lenin di fronte allo sviluppo del capitalismo in Russia. È lì che Lenin coglie e anticipa la tendenza ed è a partire da quel passaggio che pone in cantiere la “macchina – partito” che, dentro non poche traversie, conduce all’Ottobre. Banalmente, per agire con razionalità all’interno di un qualunque contesto, occorre conoscerlo. Non per caso, nella parte iniziale del testo, abbiamo parlato di protagonismo sociale e non di protagonismo politico delle masse. La “giornata romana”, infatti, ha detto chiaramente che cosa, settori cospicui di classe, non vogliono siamo però ancora ben distanti dal trasformare questo immenso potenziale in volontà e progettualità politica. Ieri, e non avrebbe potuto esser altrimenti, all’orizzonte non è stata posta la decisiva questione del potere politico. Questo passaggio non è pensabile di trovarlo bello che confezionato dentro un movimento, per quanto radicale, di massa. Questo passaggio non può che essere il frutto di una soggettività organizzata. Ma, allora, si tratta di dedicare ogni grammo di forza verso questo obiettivo.
La “giornata romana” rischia di essere imbrigliata dentro due strettoie che, seppur in apparenza in antagonismo tra loro, non rappresentano altro che le diverse facce con il quale l’opportunismo tradizionalmente si presenta. Da un lato i destri tutti presi a dissociarsi da tutto e da tutti e obiettivamente proni alle carezze di Draghi e Bersani; dall’altro i “sinistri” che, invece di cogliere i limiti politici della “giornata romana” e quindi della necessità di costruire organizzazione politica, considerano questa già risolta nella ricchezza sociale messa in mostra a Roma. Una logica che, volere o volare, non può che disarmare la classe condannandola a un susseguirsi di lotte dove, come l’intera storia del movimento proletario è lì a ricordarci, dopo aver vinto numerose battaglie si finisce con il perdere la guerra. È dentro la “giornata di Roma” che il nostro marxismo leninismo va fattivamente messo alla prova avendo sempre ben a mente il Dimitrov del settimo Congresso dell’Internazionale Comunista e il Longo di Milano.

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Il nostro 15 Ottobre.

Unione Sindacale di Base

La prima considerazione da fare in merito alla manifestazione del 15 ottobre è che sono scese in piazza 500.000 persone che hanno dimostrato che in tutto il paese esiste un forte e diffuso dissenso che esprime un punto di vista sociale non omogeneo al proprio interno ma che sicuramente fa emergere una rinnovata voglia di protagonismo e di cambiamento e la necessità di proposte ed alternative radicali.

Non si tratta esclusivamente di mandare a casa il governo Berlusconi, ma di comprendere che la causa e la regia internazionale della crisi che sta producendo povertà, precarietà e assoluta incertezza per il futuro, è la politica delle banche e della finanza che per continuare ad accumulare profitti sta distruggendo le politiche e le economie di interi paesi, Italia compresa. Una “dittatura” che si è manifestata ultimamente con estrema violenza istituzionale nella lettera di Mario Draghi e del presidente della Bce, Jean-Claude Trichet che hanno imposto condizioni, tempi e modalità delle misure economiche di uno stato sovrano, in nome e per conto dei “mercati” e di chi dietro a questo paravento continua a fare profitti.
Questa è la traduzione della parola d’ordine “noi il debito non lo paghiamo” che ha aperto uno spezzone del corteo del 15 ottobre e che ha accolto molte decine di migliaia di lavoratori, cittadini, migranti, precari e pensionati.
E’ questo il corteo che USB ha promosso insieme a tante altre realtà ed al quale ha partecipato il 15 ottobre.

Chi cerca di interpretare quella che è stata per partecipazione una delle più grandi manifestazioni degli ultimi anni esclusivamente come un “grande problema di ordine pubblico” lo fa strumentalmente per evitare di parlare dei problemi di milioni di famiglie che con il loro salario, la loro pensione o la loro cassa-integrazione non ce la fanno ad arrivare neanche al 15 del mese, di giovani e di precari che non hanno davanti nessun futuro ed a stento riescono a far fronte al presente.

Noi non ci stiamo a questa lettura della realtà che vuole nascondere sotto il tappeto le storture di un meccanismo economico e finanziario che sta triturando lo stato sociale e qualsiasi concetto e valore di solidarietà umana, immolando milioni di persone al “dio mercato”.

Sabato 15 ottobre chiunque ha potuto vedere le bandiere e gli striscioni di USB, dietro ai quali c’erano i volti di lavoratori in carne ed ossa che stanno pagando una crisi che non hanno prodotto ed ai quali si vuol far pagare un debito di cui non sono responsabili. Hanno sfilato per le vie di Roma in modo composto ma esprimendo rabbia e dissenso, in modo assolutamente tranquillo ma esprimendo contenuti radicali e conflittuali.

USB, insieme a tante altre realtà sindacali, sociali, studentesche e politiche avrebbe voluto occupare Roma in modo pacifico, fermandosi in tante vie, accampandosi nelle piazze, montando tende e rimanendoci a dormire, parlando con la gente che dentro e fuori la manifestazione dimostra ormai che questo governo e questa politica non ci rappresentano più, che la gestione dell’economia dovrebbe essere fatta per i cittadini e non contro di loro.
Invece non abbiamo avuto la possibilità di esprimerci in questo modo perché ha prevalso la disperazione e la violenza sulla ragione, sulla passione e sul conflitto sociale.

Una giudizio negativo, quello dell’uso della violenza nella giornata del 15 ottobre, che non può nascondere che tali espressioni e pratiche sono figlie della mancanza assoluta di rappresentanza sociale e politica alla quale è stato portato il nostro paese, sono frutto di un sistema dei partiti corrotto ed asservito alle banche e alla finanza internazionale, di un sindacato che in gran parte ha abbandonato il ruolo di rappresentante dei lavoratori, di una precarietà che dal lavoro si è trasferita al sociale, al quotidiano, alla vita di tutti i giorni e si trasforma spesso in disperazione.
Non vedere o far finta di non vedere questa tragica realtà vuol dire sottovalutare una situazione che si fa di giorno in giorno sempre più grave, vuol dire non affrontare in modo razionale ed analitico una realtà complessa e socialmente frammentata.
Come grave è strumentalizzare in modo inaccettabile, come ha fatto il quotidiano “La Repubblica” rispetto al quale ci riserviamo di procedere legalmente, chi esprime conflitto sindacale e sociale come USB e si trova appiccicate etichette che non riguardano questa organizzazione.

L’Unione Sindacale di Base vuole continuare serenamente e con determinazione la mobilitazione iniziata almeno un anno fa e ritiene che il conflitto sindacale, lungi dal poter essere considerato un problema di ordine pubblico come vorrebbe ridurlo qualcuno, aumenterà di intensità con il peggioramento della situazione sociale. I lavoratori lo sanno ed è per questo che tanti di loro da mesi abbandonano le vecchie aristocrazie sindacali e aderiscono ad USB che dimostra coerenza, fermezza, intelligenza e determinazione nel portare avanti tanto le lotte generali quanto quelle che quotidianamente si affrontano sui posti di lavoro.

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Una prima presa di parola del Laboratorio Acrobax sulla giornata del 15/10

Il 15 ottobre a Roma abbiamo vissuto una giornata lunga e densa di avvenimenti su cui vorremmo esprimere alcune riflessioni, anche a fronte del linciaggio mediatico a cui siamo sottoposti.
Questo comunicato è una presa di parola rispetto alla pressione mediatica che si sta producendo intorno a quella giornata; diverso e con altri tempi sarà il dibattito di movimento.

1) La giornata è stata fatta vivere da migliaia di persone, di cui noi siamo stati una parte e come tale abbiamo provato a curare la riuscita e la capacità di sedimentare, che si sono mobilitate contro la crisi e l’austerity dimostrando che in Italia c’è un malessere diffuso e in quella partecipazione vediamo la volontà determinata di cambiare, di trovare strade alternative alle ricette della banca europea e prendere parola in prima persona.

2) Questo l’abbiamo visto in maniera straordinaria nella grandissima partecipazione alla parte di corteo che abbiamo contribuito a costruire in assemblee pubbliche con centinaia di persone, con delegazioni di 15 città, dal nord al sud dell’italia, con migliaia di precarie/e, migranti e studenti, sotto le insegne di San Precario e Santa insolvenza. Immaginato e realizzato all’interno della rete degli
Stati generali della precarietà, nata nel corso dell’ultimo anno e che sta puntando alla realizzazione dello sciopero precario. Per questo abbiamo condiviso l’appello del 15 ottobre e siamo andati a Barcellona per la sua organizzazione internazionale e la costruzione di un movimento europeo.
Quella parte di corteo, a cui molte realtà si sono unite direttamente in piazza della Repubblica, aveva scelto di dare vita ad alcune iniziative di comunicazione, da quella all’albergo Exedra-Boscolo fino all’occupazione di fori imperiali che hanno costruito la nostra presa di parola pubblica e a viso aperto. A chi ci indica come regia di una presunta escalation del livello di scontro raggiunto dalla manifestazione rispondiamo che è semplicemente impossibile e fuori da ogni logica che una struttura cittadina possa organizzare una parte così ampia della manifestazione.
Nel corso del corteo si sono date delle azioni diverse dai livelli che noi abbiamo praticato o condiviso con la nostra rete. Non ci interessa entrare nel dibattito buoni e cattivi, violenza o non violenza che riteniamo molto strumentale e invece sicuramente molto più interessante è il ragionamento su come costruire relazione, condivisione e partecipazione in situazioni analoghe.

3) Crediamo che la gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine sia stata criminale e intenzionalmente mirata a dividere definitivamente il corteo, con le cariche generalizzate da via labicana, dove il nostro spezzone è stato caricato alle spalle, fino a piazza San Giovanni, con l’accanimento su manifestanti inermi e con caroselli dei blindati lanciati addosso alla gente. A questo migliaia di persone hanno risposto opponendo una tenace resistenza esprimendo una parte sostanziale di quella rabbia che vediamo ogni giorno crescere nel tessuto sociale italiano sempre più sottoposto ad un’insopportabile precarietà della vita intera.

Leggiamo e vediamo nei mezzi di comunicazione una superficiale lettura di questa giornata a cui, purtroppo, molti esponenti politici danno la stura e che stanno costruendo addosso alle nostre spalle un capro espiatorio. Assurde e ridicole le insinuazioni nei nostri confronti.
Riteniamo grave aver mischiato come figurine di un album realtà e strutture, iniziative e strumenti comunicativi, immagini e simboli.
Una gran confusione che crea un mostro mediatico da sbattere in prima pagina. Noi non abbiamo nulla da nascondere perché sempre alla luce del sole abbiamo messo noi stessi nelle lotte contro la precarietà che costruiamo giorno dopo giorno.

Laboratorio Acrobax

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Grande è la confusione sotto il cielo

Dalla Rash

Sabato abbiamo sfilato vedendo gli “indignati” di partito dare dei fascisti agli antifascisti. Avevano con loro le immancabili bandiere arcobaleno della “pace”, bandiere che si sono ben guardati dallo sventolare e portare in piazza pochi mesi fa, quando il nostro Paese ha partecipato attivamente ai criminali bombardamenti su obiettivi civili di un altro paese: la Libia. Abbiamo ascoltato il loro capo parlare in nome di un movimento del quale non farà, con buona sua pace, mai parte.

Dobbiamo forse ricordare a tutti la condotta ambigua e da “infiltrati” di Vendola e della sua Sel, degli Ezio Mauro e di varie testate come la Repubblica, su temi come l’acqua bene pubblico e comune, sulla guerra in Libia, sulla TAV, sulla precarietà? Potremmo andare avanti a lungo…

Oggi ci tocca leggere sull’Unità, da cui una volta per tutte, in un sussulto di dignità, si dovrebbe avere la decenza di togliere il nome del fondatore in rispetto ad una figura di ben altro spessore rispetto al giornalismo odierno, che le “tre frecce” antifasciste sono il logo di un network d’estrema destra…

Dietro le “tre frecce”, sabato, hanno sfilato qualche migliaio di militanti antifascisti, soprattutto giovanissimi, che hanno scandito slogan lungo tutto il corteo contro crisi e palazzo, banche e finanza, politicanti e giornalisti d’accatto, e che sarebbero arrivati in piazza san giovanni con le altre decine di migliaia di persone se all’altezza di via Labicana non fossero stati travolti da un “carosello” di volanti della polizia che a circa 80 kmh ha di fatto travolto i manifestanti e spezzato in due il corteo. Ovviamente non vedremo mai foto e articoli con titoli ad effetto su questa vicenda palesatasi in una zona dove non stava avvenendo alcun incidente.

Siamo noi gli indignati dagli “indignados” dei partiti della Sinistra liberale, liberista, ipocrita e moralista.

Questi signori, infatti, una volta deposto Berlusconi quale cambiamento epocale sono disposti ad offrirci? Una politica di maggiore attinenza a quanto stabilito dai centri economici-finanziari di Bruxelles? Cioè maggiore genuflessione ai vampiri dell’alta finanza, all’imperialismo economico delle banche targate UE? Ma non erano questi gli unici responsabili, nell’assordante silenzio di una politica ridotta a comitato d’affari, della crisi che stiamo subendo?

E’ vero, nel corteo, e non lo neghiamo, sono stati compiuti atti di teppismo puerile, gesti irrazionali da frustrati, ma di fronte alla piaga sociale di una generazione cui è negato il lavoro, la casa, un futuro, cioè diritti e bisogni essenziali,il problema, per media, opinionisti d’accatto e pennivendoli, può inevitabilmente e puntualmente ridursi a fiumi d’inchiostro e parole sull’operato di qualche ragazzino che, evidentemente, non ha altro mezzo per esprimersi?

Se la giornata di sabato ci ha insegnato qualcosa, è che questo Paese ha bisogno di un soggetto politico forte che sia ingrado di chiudere i conti con le caste politiche di ogni colore, porre al centro del suo agire le parole d’ordine della Giustizia Sociale, della Sovranità nazionale e dell’Indipendenza.

Al giornalista dell’Unità chiediamo maggiore attenzione ricordandogli di pesare bene le parole, perchè ogni parola ha un peso.

Un nemico, un fronte, una lotta!

Libertá /// Eguaglianza /// Solidarietá ///

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