L”obiettivo principale dichiarato è la “crescita”. Di “rigore” se n’è fatto molto, spesso in modo inconsulto e senza mira (la fissazione tremontiana per i “tagli lineari” ne è un esempio), e molto altro ne metterà in cantiere. Ma se non si cresce, le riduzioni di spesa diventano un acceleratore della recessione.
Qual’è la sua ricetta per questo obiettivo? Nulla di particolarmente originale, come concetto: le “liberalizzazioni”. L’idea da vendere alla stampa per rabbonire il pubblico – prevedibilmente diffidente – è “eliminare i privilegi”; che per definizione sono quelli di qualcun altro.
“Liberalizzazione dei servizi pubblici locali, le professioni, le industrie a rete come trasporti, energia e telecomunicazioni”, ci spiega Confindustria, mischiando le carte. Perché liberalizzare le professioni (avvocati, ingegneri, architetti… e giornalisti, ecc) è poco più di uno slogan. Si può abolire la “tariffa minima” (lo ha già fatto Berlusconi con il maxiemendamento dell’altroieri), ma non è che un ingegnere bravo costerà di meno solo per questo. E quelli che costeranno meno ti faranno un lavoro di cui non ti puoi fidare troppo. Un po’ come quando chiami l’idraulico cercando di andare al risparmio…
Tutto il resto si chiamano “privatizzazioni di servizi pubblici” oppure di settori strategici. Trasporto pubblico locale, servizio sanitario nazionale, assistenza di ogni genere, formazione e istruzione sono “servizi” che certo hanno rappresentato spesso una sinecura per portaborse e clientes della “politica” di basso rango, con ruberie, inefficienze, menefreghismo e appalti a “cazzimma”. Ma nell’insieme hanno bene o male garantito un welfare esigibile, anche se di qualità spesso inaccettabilmente bassa. Il rigonfiamento clientelare dei loro costi sarebbe facilmente riducibile con un repulisti – questo sì – “lacrime e sangue” di tutti gli occupanti di poltrone privi di competenze specifiche e lavoro da fare. A partire dalle migliaia di “consulenti” profumatamente pagati per starsene a casa.
Privatizzare, qui, significa solo gonfiare i prezzi per gli utenti finali (noi tutti), per un servizio peggiore e di minore copertura. Pensiamo agli autobus. Un servizio privatizzato, con deve “guadagnare” facendo trasporto cittadino, dovrebbe diminuire il parco mezzi circolante e il numero dei dipendenti (sia viaggianti che impiegati), aumentando di tre o quattro volte il prezzo dei biglietti. Non parliamo della sanità per carità di patria: al di sotto di un reddito medio-alto nessuno potrebbe farsi curare. E nemmeno dell’acqua, di cui abbiamo già avuto precedenti operativi – Aprilia, ecc – oltre un referendum di segno opposto.
Nei settori strategici (energia, telecomunicazioni, ecc) si rischia la svendita a imprese straniere, perché di “capitali nazionali” non si vede l’ombra.
Come “programma di crescita” non ci sembra efficace. Anche senza considerare gli aspetti di “giustizia sociale”.
Nella “riduzione dei costi della politica” si annidano diversi non detti. Tutti odiano giustamente “la casta” di quelli che vengono percepiti come truffatori che vivono alla grande a spese nostre. E questo odio viene però “canalizzato” verso un modello di governance che non vede più come indispensabile una infrastruttura della rappresentanza popolare (parlamento, regioni, province, comuni) che media gli interessi diversi a ogni livello di articolazione territoriale. La drastica riduzione del numero dei “rappresentanti del popolo” ad ogni livello, dunque, può esser vista come un necessario sfoltimento della folla di mangiapane a ufo; ma può, nello stesso tempo, diventare riduzione dell’articolazione della “volontà popolare”. Ci torneremo, perché qui si individua un cambiamento radicale delle “forme della politica” per l’intero Occidente, che chiude la non lunga parentesi storica della “democrazia rappresentativa”.
«Poco viene fatto – scriveva Monti – per ridurre il peso sull’economia e sulla società degli esorbitanti costi del sistema politico peraltro scarsamente produttivo in termini di decisioni prese tempestivamente». Modalità della democrazia (discussione, individuazione dei punti di mediazione, condivisione delle scelte, ecc) sono dunque in conflitto radicale con la “tempestività delle decisioni”. Inevitabile, dunque, che la prima venga ridotta a foglia di fico.
Sulle tasse Monti si è più volte schierato su uno schema di redistribuzione dei carichi dal lavoro/impresa ai consumi e patrimoni. Solo in Italia, in effetti, abbiamo la “ritenuta alla fonte” sui redditi da lavoro dipendente e sulle pensioni. In tutti gli altri paesi europei no: si fa la dichiarazione dei redditi e si possono portare in detrazione tutta una serie di spese per cui si deve necessariamente produrre fattura o scontrino. In tal modo si tassano i consumi effettivi (non i redditi, magari infimi, con i “non dichiarati” che non pagano nulla) e si riduce di molto lo spazio dell’evasione fiscale. Ma non crediamo che mr. Monti rinuncerà tanto facilmente alla principale “entrata sicura” dello Stato, ossia alla ritenuta alla fonte.
Di certo ha scritto e detto più volte che bisogna eliminare le pensioni di anzianità e che occorre “riformare il mercato del lavoro”. «C’è la necessità di un disingessamento, di favorire i giovani, coloro che sono fuori dal mercato del lavoro». E quindi fine dell’art. 18 e vai con le ricette di Pietro Ichino o Tito Boeri. Chiacchiere retoriche per nascondere il fatto che si vuol passare da un “sistema duale” squilibrato (qualche diritto certo per gli assunti a tempo indeterminato, tra cui la non licenziabilità “senza giusta causa”, nessun diritto per i precari) a un “sistema unico” infame, in cui non c’è alcun diritto certo per nessuno. E licenziabilità per tutti. Non ci sembra la miglior forma di “ugualianza”, diciamo così.
Che differenza c’è tra questo programma e quello di Berlusconi-Sacconi-Tremonti? Per il lavoro dipendente, nessuna. Per i ceti parassitari che hanno prosperato soprattutto dentro il blocco sociale berlusconiano (ma anche, in misura appena inferiore, dentro le reti clientelari collegate al sistema partitico, Sel compresa) potrebbe invece essercene più d’una. “Potrebbe”, ma non è detto… In fondo Berlusconi & co. sono “indispensabili” per far vivere il suo governo, vero mr. Monti?
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La conferma arriva direttamente da Il Sole 24 Ore
Ora 18 mesi: obiettivo rifare tutto
Fabrizio Fourquet
Se sarà davvero Mario Monti, come tutto lascia ritenere, a guidare un nuovo governo lo sapremo nelle prossime ore. La gestione della successione a Silvio Berlusconi è di fatto nelle mani di Giorgio Napolitano. E sono ottime mani, cui possiamo guardare con fiducia e con gratitudine per quello che il capo dello Stato sta facendo in questi giorni.
Ieri Il Sole 24 Ore ha aperto con un titolo – rilanciato immediatamente sulle testate e i siti di tutto il mondo – a caratteri cubitali: «Fate presto». È quello che il capo dello Stato sta facendo. E un primo riconoscimento alla sua azione è venuto ieri dai mercati finanziari. L’asta dei BoT ha visto pagare un alto rendimento, ma ha di fatto tenuto, grazie a una domanda elevata. Lo spread è sceso da 552 a 516 punti. Il BTp decennale è calato al 6,89%. L’indice Ftse Mib della Borsa di Milano ha chiuso con un +0,97%, facendo registrare il miglior risultato in Europa.
L’ipotesi Monti piace. È un fatto. Ma soprattutto piace la prospettiva che in Italia si stiano rapidamente creando le condizioni per adottare quelle riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno. Lo ha detto per tutti il presidente Usa Barack Obama, esprimendo la sua fiducia in Napolitano «per la messa in piedi di un governo ad interim che attuerà un programma di riforme aggressivo e riporterà fiducia sui mercati».
Comunque la si pensi, infatti, da domani, con le annunciate dimissioni di Berlusconi, si aprirà una finestra temporale di straordinaria opportunità per mettere in atto la più radicale revisione dei fondamentali dell’ordinamento economico (e perché non anche istituzionale?) italiano. Una finestra di un anno e mezzo. Fino alla naturale scadenza della XVI legislatura. Uno spazio di tempo in cui le ragioni del consenso immediato della politica debole potrebbero lasciare spazio alla responsabilità di un esecutivo che avrà la “salvezza” dell’Italia (perché, è chiaro, di questo si tratta ormai) come obiettivo prioritario.
Non un governo tecnico. Perché, come è stato detto, ogni esecutivo che ha una sua maggioranza parlamentare è politico. Ma soprattutto perché per fare le riforme necessarie servirà la politica. Eccome se servirà. Mettere d’accordo, intorno al programma draconiano che l’Europa ci chiede, un Paese fortemente diviso come il nostro, ottenere il via libera dei sindacati e delle imprese, dei lavoratori pubblici e degli autonomi, sarà un’impresa che richiederà raffinate doti politiche. Napolitano lo sa. E di sicuro ne terrà conto nel promuovere una squadra di governo equilibrata tra competenze tecniche e risorse politiche.
Il primo ad essere consapevole dell’imprenscindibilità della politica, del resto, è lo stesso premier in pectore Mario Monti. Lo dicono le sue parole: «La crescita richiede riforme strutturali che rimuovano i privilegi che praticamente tutte le categorie sociali hanno», il punto è che «ognuno tende a difendere la propria circoscrizione elettorale» e questo rende politicamente più difficili le riforme.
Il governo che si formerà potrà mettere più in secondo piano le «circoscrizioni elettorali», ma dovrà comunque convincere le agguerrite «categorie sociali» – che spesso in Italia assumono la meno nobile attitudine alla difesa del «particulare» tipico delle corporazioni – che è giunto il momento di rinunciare ai propri «privilegi».
Per questo servirà la politica, l’alta politica. E servirà mettere in chiaro, sin da subito, che i sacrifici investiranno tutti, senza risparmiare nessuno. E che chi ha di più potrà e dovrà contribuire di più. L’equità sarà il primo viatico per il successo del programma di riforme che il nuovo governo ha davanti.
Questo vuole anche dire che l’architettura degli interventi dovrà essere ampia e coerente. Non basterà la riforma delle pensioni e non basterà la riforma del mercato del lavoro, così come non basteranno un riassetto fiscale o l’introduzione di una patrimoniale. Servono l’abolizione delle pensioni d’anzianità e la lotta all’evasione fiscale, meno rigidità sui contratti di lavoro a tempo indeterminato e maggiori tutele per i precari, un fisco più orientato alla crescita e un prelievo sulla ricchezza “statica”, un mercato più libero e uno Stato più leggero, una pubblica amministrazione più efficiente e una politica più parca.
Serve ciascuno di questi interventi e serve l’insieme di questi interventi. Il sacrificio di ognuno dovrà trovare corrispondenza nel sacrificio del suo vicino. Solo così l’Italia dell’euro potrà essere rifondata. E per farlo sarà richiesta competenza tecnica e capacità politica. Un vasto programma, certamente. Ma proprio per questo è importante cominciare subito. Fate presto, dunque, e fate bene.
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Marco
Cari Compagni,
concordo quasi ovviamente con le linee generali dell’articolo, che contiene un punto che vorrei sottolineare. La demagogia, alla fine qualunquista, che si fa attorno alla riduzione del numero dei parlamentari é insostenibile. Giustamente l’estensore dell’articolo fa notare che una loro riduzione allontanerebbe ancor più i cittadini dai loro rappresentanti e renderebbe ancora più difficile il loro controllo da parte degli elettori. A me sembra grave, come mi sembra grave l’idea di abolire i piccoli comuni e i loro consigli, che rappresentano una forma di partecipazione che a volte, in tali centri, é l’unica. E costa quasi niente. Quindi il progetto é proprio la disarticolazione della rappresentanza popolare. Che poi nei fatti questa rappresentanza sia gestita malissimo, che i deputati utilizzino le loro circoscrizioni per malaffari e mazzette invece che per conoscere i problemi e riportarli a livello istituzionale, é vero, ma riguarda la casistica e non la regola. Insomma, il problema non é tanto ridurre il numero dei parlamentari, ma piuttosto che tali signori e signore fanno male il loro compito.
Per quanto riguarda l’abolizione dei privilegi di cui parla Monti, beh, la storia é vecchia. Purtroppo quando sento questi signori temo sempre che loro dicano “abolire i privilegi” ma che si debba intendere “abolire i diritti”, quelli dei lavoratori, lasciando intatti i veri privilegi della borghesia.