L’analisi delle misure l’abbiamo fatta anche noi. Vi diamo qui il quadro che ne fa “il manifesto”, tra lucidità analitica e qualche preoccupazione di troppo per un bon ton politico che non ha più ragion d’essere. In particolare, fatica ad emergere un concetto che a noi sembra diventare di evidenza solare: non esista alcun manovra “tecnica”. Ogni operazione di bilancio è politica e grava di preferenza su una parte della popolazione anziché sun un’altra. A seconda dell parte che “bastona” una manovra può essere definita anche politicamente. E quella di Monti è di destra, assolutamente di destra.
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Francesco Piccioni
Equità vo cercando, che sì cara… Ma trovarla è veramente un’impresa destinata al fallimento. Eppure il Commissario europeo all’economia, Olli Rehn, si è precipitato domenica sera a garantire con una nota ufficiale che in effetti «c’era equità».
Per una manovra così pesante, che si aggiunge ad altre due nello stesso anno (a luglio e agosto), sembrava fondamentale che fosse socialmente distribuita con qualche accortezza, in modo da non pesare solo «sui soliti noti» e restituire il senso di una «partecipazione allo sforzo» di «tutte le componenti della società italiana».
Persino la Chiesa, che pure può vantare nel governo una percentuale semi-bulgara di ministri provenienti dalla Cattolica, non l’ha trovata. «Si poteva fare di più sui redditi alti con l’Irpef», ha mormorato Giancarlo Bregantini, responsabile Cei per i problemi sociali. Proprio le manovre sull’Irpef, in effetti, restituiscono la cifra della disuguaglianza sociale vista, aggirata, aumentata. In altri tempi avremmo detto «il segno di classe», con ragione.
Per giorni era stato lasciato trapelare che i redditi oltre i 75.000 euro annui avrebbero subito un aumento dell’aliquota Irpef dal 43 al 46%. Per giorni la destra berlusconiana aveva storto il naso. E ha vinto («il no all’aumento dell’Irpef vuol dire che è passata la nostra impostazione», ha spiegato Angelino delfino Alfano). Un mancato introito improvviso. Ma come è stato coperto? Semplice: con l’aumento dell’«addizionale regionale Irpef», dallo 0,9 all’1,23%. In pratica a tutti i cittadini che dichiarano un reddito – di qualsiasi importo – verrà sottratto lo 0,33% in più rispetto all’anno scorso. Cosa cambia? I benestanti (fino agli ultraricchi) sborseranno un decimo di quel che avrebbero dovuto, nel caso fosse passata l’ipotesi iniziale; tutti gli altri un qualcosina in più. Ed è noto che queste «qualcosine» vengono notate molto da chi ha poco. E viceversa.
La materia fiscale è scivolosa, vischiosa, fa sembrare uguali tutti i redditi, in qualunque modo siano stati generati. Prendiamo l’Iva. Verrà aumentata anch’essa, dal prossimo 1 settembre. Si fa finta che ciò avverrà soltanto per evitare di dover «rimodulare le agevolazioni fiscali» (un numero davvero grande, dalle detrazioni alle esenzioni). Ma scatterà certamente e sarà anche questa «differenziante», perché peserà molto di più sui redditi bassi. Per esempio: si pagherà il 23%, anziché il 21, per la benzina, i telefonini, ecc; il 12 (invece del 10%) per la carne, i salumi, la pizzeria o i servizi turistici. Chi ci rimette di più, in proporzione al reddito?
Lo stesso ragionamento si può fare per le tasse sulla casa, ora reintrodotte. Non si chiamerà Ici, ma Imu (imposta municipale unificata); comprenderà al suo interno un «restyling» (la dolcezza delle parole ha un suo perché, probabilmente) della tassa sui rifiuti e una rivalutazione drastica delle «rendite catastali». La prima va in proporzione alla dimensione del nucleo familiare, non del reddito. La seconda – «giusta» in astratto, visto che erano ferme da 15 anni – è proporzionale ai valori precedenti, ma non distingue più di tanto tra chi ha molto e chi ha poco. È vero che la «prima casa» viene tassata al 4 per mille, mentre già la seconda subisce un rincaro fino al 7,6. Ed è verissimo che solo in Italia non c’era più una tassazione significativa sugli immobili. Ma anche qui è stato scelto un criterio «proporzionale astratto», che finisce per gravare di più su chi – non sono pochi – sta magari ancora pagando il mutuo mentre rischia di perdere il lavoro.
Del resto, il «guanto di velluto» con i patrimoni «consistenti» si vede anche nel trattamento riservato ai capitali «scudati» da Tremonti e Berlusconi. L’1,5% di quelle cifre, da dare al fisco, non farà piacere ai loro proprietari; ma certo non ha nulla a che vedere con il «trattamento europeo» riservato ai capitali esportati illegalmente (obbligo di dichiarare la propria identità, l’ammontare dell’evasione, pagamento delle tasse arretrate con gli interessi, in cambio della decadenza delle conseguenze penali ed uno sconto sulle sanzioni).
L’«equità», stiamo dicendo, presuppone il riconoscimento delle differenze che si hanno davanti. Altrimenti diventa solo «equità attuariale», un criterio contabile. Proprio quella che – con molta enfasi – riconosce Il Sole 24 Ore nell’ennesima «riforma delle pensioni» e che ha nel «sistema contributivo» l’esempio pratico. Pochi ricordano che il contributivo è stato sistema vigente fino al 1968(ahi…)-1976. Aveva creato una marea di pensionati poveri, e si corse al riparo introducendo progressivamente il «retributivo». Oggi avviene l’opposto, ripristinando le condizioni della «povertà degli anziani». Ma, per favore, non veniteci a raccontare che lo fate «per equità».
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Pesante come vociferato, invece, l’aumento dell’Iva, che passerà dal 21 al 23% dall’1 settembre 2012, una grande batosta, più grande per chi ha meno soldi, vecchia storia. La mannaia resta sospesa, da attuare «solo nel caso in cui sia necessario», mentre le somme recuperate, ha detto il sottosegretario Giarda, andranno «a favore delle famiglie, delle famiglie giovani e delle donne». Mah. Altra tassa per tutti, ma sempre un po di più per chi ha meno soldi da spendere, l’aumento delle accise sui carburanti. Dal 1° gennaio 2012 l’imposta di fabbricazione sulla benzina salirà a 704,20 euro per mille litri, mentre quella del diesel a 593,20 euro per mille litri. Impatto stimato alla pompa, circa 10 centesimi in più per la benzina e circa 13 per il gasolio. Pare che i maggiori introiti serviranno a rifinanziare il trasporto pubblico locale, ma dubitare è giusto.
Come in Danimarca ma senza il welfare della Danimarca. Mario Monti non si cura dell’impopolarità del decreto appena varato e conferma l’apertura del «prossimo cantiere»: quello del lavoro e del welfare. «E’ una materia che necessita del negoziato con le parti sociali», ammette il Professore, annunciandolo addirittura «tra qualche giorno». Di certo il malessere che si respira nei sindacati non spiana la strada ad altre riforme da lacrime e sangue.
Di fronte alla stampa estera il premier torna a guardare alla «flexicurity» e al «modello danese». Un sistema che in Italia ha un nome e cognome, Pietro Ichino: contratto unico di lavoro senza data di scadenza, licenziamento libero in cambio di un indennizzo economico e sostegno alla disoccupazione con un contratto di ricollocamento. Il problema è che i danesi sono 5 milioni e gli italiani 60. E a Copenhagen pagano un mucchio di tasse. Monti, non a caso, ha confermato di volersi «ispirare» ai paesi del Nord Europa «nel modo di intendere la protezione sociale e cioè non la protezione del singolo posto di lavoro ma la protezione del singolo lavoratore» senza però voler prendere come esempio quel modello fiscale.
Il Professore butta la palla in avanti. Sa che con Cisl e Uil si può ragionare e sa anche che dalla sua ha un alleato fortissimo come la Commissione europea. Nel suo rapporto sull’Italia del 29 novembre, infatti, Olli Rehn ha suggerito al nostro paese l’abolizione pura e semplice dell’articolo 18 in cambio di un «modesto indennizzo» (moderate tenure-related severance payment, cfr. pag. 6), più la «semplificazione dei licenziamenti collettivi», la «riduzione dei contratti atipici» e la «razionalizzazione dei sussidi di disoccupazione» sempre che «ci siano coperture finanziarie adeguate». Un abbozzo di riforma che, passata la discussione sul decreto «salva Italia», tornerà ad animare certamente il dibattito pubblico.
A differenza che a Roma, con Bruxelles la concertazione del governo va a gonfie vele. Monti si presenta al vertice di giovedì e venerdì con tutta l’intenzione di far valere il suo decreto “impressionante”. Per preparare il terreno, ieri mattina ha incontrato a Palazzo Chigi il premier olandese Mark Rutte, al quale ha illustrato la manovra appena varata provando a concordare una strategia comune in vista dell’incontro con gli altri capi di governo. Rutte si è detto «molto impressionato» dalle misure appena varate: il governo olandese le «sostiene pienamente e si augura che siano implementate», ha detto in conferenza stampa. Aperture di credito che a Roma non si sentivano da mesi.
Basterà per salvare non solo l’Italia ma «l’Europa intera», come pomposamente hanno detto in aula sia Dario Franceschini che lo stesso premier? I dieci giorni che sconvolsero l’Europa scadono questa settimana con il mega vertice di Bruxelles (vedi articolo a pagina 7). Il fallimento – a detta di tutti – non è un’opzione. Che si tratti di un appuntamento cardine lo dimostra la lunga visita in Europa del segretario al Tesoro americano Tim Geithner.
Su espresso invito di Obama, Geithner chiederà ai partner europei misure definitive per evitare che il contagio si allarghi a Wall Street e alla «main street» nell’anno delle presidenziali. La Casa Bianca non vuole sbavature. Non a caso proprio ieri il vicepresidente Joe Biden era ad Atene. Ex capo della Fed di New York, anche il giovane segretario al Tesoro vedrà in pochi giorni tutti i principali leader europei (incluso il governatore Bce Mario Draghi), non ultimo dei quali proprio Mario Monti giovedì a Milano. Il ministro americano non è un negoziatore raffinato. A settembre scorso, nell’Ecofin in Polonia, fu così perentorio con i diktat ai governi europei da sfiorare la catastrofe diplomatica.
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