L’elemento informativo che nessun altro dà è infatti nel clima da “resa dei conti” che la Camusso sta imponendo all’interno della Cgil. Il caso della Calabria, una delle poche regioni in cui c’era una “segreteria” unitaria, con la presenza di un membro della minoranza interna “La Cgil che vogliamo”, sembra preludere a un commissariamento molto più clamoroso: quello della Fiom.
Che intanto porta nella discussione interna il successo nella raccolta delle firme tra i dipendenti del gruppo Fiat per chiedere un referendum sull'”accordo” siglato da Cisl, Uil e Fismic con Marchionne. Um modo per allontanare la possibilità che la Camusso, come tutti sanno vorrebbe fare, torni a chiedere una “firma tecnica” della Fiom sotto quello stesso accordo. Con l minaccia di “avocare alla segreteria confederale”, ovvero a se stessa, il potere di farlo. Sarebbe la prima volta che una categoria viene esautorata della propria autonomia contrattuale, nella Cgil. Ma siamo in tempi “d’eccezione”, dove piccoli e grandi golpe si susseguono a ogni livello. La Camusso vuole iscriversi al club dei golpisti?
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Non c’è da essere ottimisti. Gli incontri tra il governo e i sindacati confederali sulla «riforma del mercato del lavoro» sono iniziati. Ieri è toccato a Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, e Luigi Angeletti, pari grado nella Uil (Susanna Camusso, leader della Cgil, l’aveva fatto venerdì). Ma si tratta di «incontri informali», come hanno tenuto a precisare dal ministero del lavoro; di «incontri separati», come aveva preteso fin dall’ijnizio il presidente del consiglio Mario Monti. Soprattutto si tratta di incontri «declassati»: non è Monti a parlare con i segretari generali Cgil, Cisl e Uil, ma Elsa Fornero, ministro del welfare. Autorevole, certo, ma non è il premier.
Il «metodo» scelto è dunque stato ribadito e rafforzato. In questa fase, dicono da via Veneto, il ministro si limita ad «ascoltare e prendere appunti», senza esporre grandi progetti. Mercoledì toccherà anche a Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, e così sarà completato il giro di consultazioni con le parti sociali. Poi «si definirà l’agenda relativa a temi e modalità del confronto». Che non sarà lungo, viene anticipato, perché la riforma «va fatta», se non entro gennaio, «nemmeno dopo Pasqua». Febbraio, diciamo. Come per le pensioni: decide il governo, non si «contratta».
Una conferma indiretta è venuta ieri da Bonanni, che è uscito dopo tre ore di colloquio asserendo che «non abbiamo parlato di nulla di particolare, o comunque nulla che ci porti a divisioni». Un semplice «lavoro propedeutico per darsi degli indirizzi», con l’obiettivo di arrivare al più presto al confronto sulle «proposte che farà il governo e le proposte che gli impernditori e i sindacati faranno insieme». Già questo è un bell’elemento di confusione: cosa possono «proporre insieme» rappresentanti dei lavoratori e delle imprese in una fase in cui le seconde chiedono soprattutto – sul terreno delle regole contrattuali – libertà di licenziare i primi?
Il tasto dolente è in effetti l’art. 18, su cui la Cgil intera per ora non mostra alcuna voglia di discutere, ma che per Monti «non è un tabù». Una parola che viene usata in genere per dire: «sì, vogliamo quella cosa lì e pensiamo di poterla avere presto».
In assenza di informazioni dettagliate sulle intenzioni del governo, dunque, non resta che resocontare le richieste sindacali. Unitarie fino ad un certo punto, comunque accennate dai due segretari «complici» di Sacconi e del governo berlusconiano. Una «riforma fiscale in chiave redistributiva», come se i mancati adeguamenti salariali (come rilevato anche dall’Istat) potessero essere pacificamente compensati con sgravi fiscali, ossia con minori entrate per uno Stato con l’acqua alla gola. Sugli ammortizzatori sociali, con la disponibilità (anche della Camusso) a «rivedere» i meccanismi della cassa integrazione, compensati da qualche estensione dell’assegno di disoccupazione. A occhio, un gioco in cui ci si rimette qualcosa di certo per una incerta. E poi la richiesta che il «lavoro precario» costi più di quello a tempo indeterminato (anche qui: si lascia perdere l’obiettivo di ridurre al minimo i contratti «atipici»), incentivando quello in «somministrazione» (Manpower ecc, ringraziano) e «il vero contratto unico: l’apprendistato».
E la Cgil? La Camusso, parlando a La7, ha ribadito il fermo «no» all’eliminazione dell’art. 18, in base al principio di buon senso che «per creare lavoro non si può licenziare di più». Ma ha anche ricordato – per controbattere l’accusa giornalistica di «fare pregiudizialmente le barricate» – che la Cgil non si è mai «tirata indietro» in molti casi di «riconversione o ridimensionamento» aziendale.
Ma è stato su una frase detta forse di sfuggita che si è appuntata l’attenzione degli addeti ai lavori: «stare al lavoro fino a 72 anni è una follia, perché così non si dà ai giovani la possibilità di inserirsi nelle aziende». Forse è ingiusto anche per i poveri 72enni, ma la domanda è: da dove è venuta fuori questa nuova «soglia»? Dai calcoli sui prolungamenti automatici rapportati alle aspettative di vita «nel 2050», oppure dal colloquio con la Fornero?
In ogni caso, la discussione sull’età pensionabile sempre più alta rivela un obiettivo di radicale modifica della vita sociale: in cui l’uscita dal lavoro (se si ha la fortuna di trovarlo) non è più prevista.
Di fronte a uno scenario piuttosto fosco per le prossime settimane, la Camusso ha voluto trovare almeno un lato positivo nel governo Monti: «ha detto che non c’è l’intenzione di dividere i sindacati: un bel salto di qualità rispetto al governo precedente». Il rischio concreto, però, è che spacchi la sua Cgil. perché da un lato l’«unità» è importante, ma non più del «per fare cosa?». Dall’altro, con il metodo degli «incontri separati e declassati», Monti dà a vedere che la sua preoccupazione non è di dividere i sindacati. Forse perché non ne teme granché la reazione.
C’è maretta in Cgil. Siamo nel profondo sud, alla Camera del lavoro di Cosenza, tra le più antiche per insediamento sindacale nel Mezzogiorno (la Cdl di Fausto Gullo e Pietro Mancini, per intenderci), con quasi 35 mila iscritti. Maggioranza camussiana e opposizione interna sono ai ferri corti. Le polemiche, anche aspre, hanno lasciato il posto a torsioni burocratiche. E il redde rationem rischia di fare la sua prima «vittima»: Delio Di Blasi, leader provinciale della «Cgil che vogliamo». Tecnicamente, la segreteria regionale avrebbe comunicato all’Inps – l’ente presso cui Di Blasi lavorava prima di dedicarsi a tempo pieno all’attività da sindacalista – la revoca del suo distacco (senza nessuna comunicazione all’interessato, in barba alle più elementari regole). «Qui in gioco non c’è solo il mio allontanamento – spiega Di Blasi – ma la democrazia stessa all’interno dell’organizzazione. La paura è che dietro quella che sembra una mera procedura burocratica si nasconda una limitazione del dibattito e della democrazia sindacale».
Che tirasse una brutta aria per i «non allineati», Di Blasi lo aveva già sperimentato all’indomani del Congresso dove l’area di sinistra aveva ottenuto un buon 15%. Nonostante ciò la nuova segreteria ha deciso di non affidargli alcun incarico. Per oltre un anno Di Blasi ha continuato autonomamente a seguire alcune vertenze decisive, a stare nei movimenti ambientalisti (è uno degli esponenti più rappresentativi del coordinamento regionale per l’acqua pubblica», nelle lotte studentesche all’Unical, dentro i conflitti per il diritto all’abitare. E la riprova è un appello in suo favore che in un paio di settimane ha già raccolto quasi mille firme: dalla Cgil (in tutte le sua componenti) al sindacalismo di base, dalla Rdt «Franco Nisticò» al Coordinamento Prendo Casa, dai precari delle cooperative sociali ai collettivi universitari fino a intellettuali di respiro nazionale come Viale, Perna, Marcon, Bevilacqua. Insomma, una battaglia di principio da combattere fino in fondo perchè, dicono i firmatari, «non vorremmo che fossero il suo attivismo e le sue idee ad avergli nuociuto».
Sarebbe paradossale se, nel periodo di massima crisi sociale per il territorio, la Cgil si privasse di un apprezzato sindacalista. Nel cosentino, in effetti, lotte e vertenze non mancano. Solo nell’ultimo anno la Cig ha subito un incremento del 45%, la disoccupazione tocca il 34%. E questo «arriva dopo un 2010 nero. Siamo praticamente di fronte all’azzeramento del tessuto produttivo del cosentino», avverte De Blasi, che nel corso dell’ultimo anno si è ritagliato un ruolo importante nelle lotte di molti lavoratori, i quali hanno reagito con durezza alla notizia della revoca. «Ritroviamo il senso del nostro stare all’interno di un sindacato solo in virtù del fatto di avere conosciuto al suo interno una persona capace di esporsi in prima persona, senza se e senza ma, restituendoci l’immagine di un’organizzazione fatta anche di persone leali», scrivono nota i lavoratori di Città dei Ragazzi e delle ludoteche comunali, protagonisti vittoriosi di una lotta durissima seguita da Di Blasi. Pronti a stracciare la tessera se non ci fosse una marcia indietro.
Ieri è sceso in città Gianni Rinaldini, portavoce nazionale della minoranza Cgil, che in un’affollata assemblea alla Camera del lavoro ha ribadito che «l’agibilità democratica va garantita. Denunciamo un metodo che va avanti da troppo tempo, teso a espellere la democrazia interna, in cui il pluralismo è avvertito come un problema da eliminare anzichè una risorsa da valorizzare. Ma senza pluralismo la Cgil non è all’altezza di fronteggiare le sfide che la crisi sociale impone. Da due mesi chiediamo invano alla segreteria confederale un incontro per evitare che casi come quelli di Cosenza si ripetano. Aspettiamo fiduciosi».
Si è aperta una settimana cruciale per la Cgil. Mentre il governo dei professori incontra i sindacati per una consultazione che, per esplicita volontà di Monti, nulla ha a che fare con la concertazione, in Cgil si dibatte sullo scontro in atto alla Fiat. Si dibatte e ci si divide. Che fare, dopo la valanga di accordi separati con cui è stato cancellato il contratto nazionale e si è espulsa la Fiom dalle fabbriche? Oggi una prima analisi dell’era «dopo Cristo», come la chiama Sergio Marchionne, sarà avviata dal comitato centrale della Fiom. Domani e giovedì la patata bollente passerà al direttivo nazionale della Cgil.
Il segretario dei metalmeccanici Maurizio Landini proporrà di assumere la richiesta che viene da tanti e tante dipendenti Fiat di indire un referendum per bocciare il contratto aziendale imposto da un accordo separato tra l’azienda e tutti i sindacati tranne la Fiom, senza mandato dei lavoratori e senza verifica nei posti di lavoro. «Secondo l’accordo del 1993, nel caso di un accordo approvato a maggioranza dalle Rsu, i lavoratori interessati possono raccogliere le firme per chiedere il referendum abrogativo», spiega Landini. E in soli tre giorni le firme raccolte nelle fabbriche sono oltre 10 mila, un po’ meno della metà di quelle necessarie a restituire la parola agli 86 mila dipendenti della multinazionale. Landini chiede al governo la convocazione di un tavolo «sugli impegni e gli investimenti per gli stabilimenti italiani della casa automobilistica»: l’esecutivo deve «garantire il pluralismo e le libertà sindacali nel gruppo Fiat». Alla raccolta di firme italiane si affianca una campagna di mobilitazione internazionale che potrebbe sfociare in un ricorso all’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro). Quattro ore di sciopero con assemblee si sono già svolte nelle fabbriche Fiat e sabato 11 febbraio, sempre indetta dalla Fiom, una grande manifestazione dei metalmeccanici attraverserà le strade di Roma in difesa dei diritti di chi lavora, per la riconquista del contratto nazionale, contro i diktat Fiat e le discriminazioni sindacali. Fino al 31 dicembre a Pomigliano, tra i 6-700 «nuovi assunti», non ce n’era uno della Fiom.
Se in casa Fiom non ci sono dubbi sul fatto che la battaglia continuerà «fino alla riconquista del contratto nazionale», in Cgil c’è chi invece vorrebbe mettere nero su bianco la parola «sconfitta», con l’obiettivo di togliere alla Fiom l’autonomia contrattuale andando ad apporre una firma più o meno tecnica in calce all’accordo separato, nei fatti commissariando la categoria. L’ipotesi però, che ha una sponda nella minoranza «camussiana» all’interno della Fiom, divide la Cgil e non è detto che la segretaria generale deciderà l’affondo nel direttivo di domani. Oltre alla minoranza «La Cgil che vogliamo», alcune categorie e strutture territoriali importanti sono nettamente contrarie, altre temono che se dovesse passare la logica del commissariamento si aprirebbe una pessima stagione di caccia alle streghe, con un salto indietro dell’organizzazione di alcuni decenni. Soprattutto, come potrebbe spiegare la Cgil una normalizzazione di questo tenore alle migliaia di lavoratori Fiat che, in appoggio alla battaglia della Fiom, stanno firmando per indire un referendum abrogativo dell’accordo-mostro?
Oggi al comitato centrale Fiom non si discuterà solo di Fiat ma anche delle scelte di politica economica del governo e dei rischi insiti nell’annunciata riforma del mercato del lavoro. Secondo Landini, all’ordine del giorno ci sono la questione giovani e l’introduzione di un reddito di cittadinanza.
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