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I forchettoni neri (quarta puntata)

Mentre la rabbia degli studenti invadeva le strade del centro di Roma, il Ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini, barricata nel bunker del governo, annunciava giubilante la liquidazione dell’eredità del 1968, con il suo portato rivoluzionario di libertà ed uguaglianza. Grazie all’operato del governo Berlusconi, i potenti si sono presi tutte le rivincite che sognavano da decenni contro le utopie ed i cattivi maestri della sovversione: adesso, finalmente, gli operai la smetteranno con quella storia assurda di volere il figlio dottore.
 
Verso la metà degli anni 70, c’era già chi lavorava alacremente per contrastare il diffondersi nella società italiana di quelle utopie eversive, per mettere a tacere le voci che parlavano di diritto allo studio per tutti, di potere agli operai, di emancipazione delle donne. In tutte le città, manipoli di baldi giovani con gli occhiali a specchio, i capelli cortissimi e improbabili scarpe a punta lavoravano alacremente di spranga e di rivoltella per ricondurre alla ragione capelloni e comunisti. Qualcuno, più specializzato, si dedicava al bombardamento di banche, di treni e di piazze affollate da troppi lavoratori sindacalizzati.
 
Fra quei simpatici giovanotti di buona famiglia, dediti anche allo stupro a tempo perso, furoreggiavano slogan come l’esplicito “Cile-Cile-Argentina, l’Italia come l’America Latina” o il sobrio “Auschwitz-Mathausen-Buchenvald sono le tappe della civiltà”. Il più gettonato, comunque, era il ritmico “Il comunismo non passerà”, il tutto accompagnato da quel curioso saluto a braccio e mano tesi che, notava il cantautore Fausto Amodei, ricordava la silenziosa richiesta dei bambini alla maestra di poter andare al cesso.
 
A Roma, di quei giovanotti ce n’erano parecchi: risiedevano principalmente nei quartieri alti (Parioli, Prati, Piazza Bologna, EUR, Vigna Clara, Balduina) ma anche in zone piccolo borghesi o popolari (Prenestino, Primavalle, Tiburtino), dove, però, non se la passavano molto bene. Oltre ai già citati occhiali a specchio e scarpe a punta, loro tratti distintivi erano, in inverno, il cappotto “loden” rigorosamente verde e, in estate, le magliette Lacoste, quelle con il marchio del coccodrillo. Per gli spostamenti, erano d’obbligo il “vespone” bianco, che sembrava uno scaldabagno con le ruote, o il “Maggiolone” nero, che faceva tanto Terzo Reich. Letture, pochine: un po’ di Evola e Pound, qualcosa di Cèline e Drieu La Rochelle, Tolkien neanche tanto, il Mein Kampf, qualche libretto pseudo esoterico, insomma più moschetto che libro. Attività preferita: la caccia al “rosso”, altrimenti detto “compagno”, “peloso”, “bolscevo” o “zecca”, caccia i cui terreni erano le scuole superiori, perché all’Università non era proprio aria. Armi in dotazione: bastoni, spranghe, tirapugni, catene ed anche pistole, tanto le forze dell’ordine chiudevano sempre un occhio di fronte a quella jeunesse dorèe così impegnata nel salvare l’Italia dalla montante marea rossa.
 
Naturalmente, in quell’ambiente guerriero emergevano i più coraggiosi, anzi i più arditi, quelli che gettavano il cuore oltre l’ostacolo e, dopo aver pestato ben bene in quindici un ragazzino con i capelli troppo lunghi, abbordavano le ragazze di periferia, le caricavano nelle loro belle macchine e le violentavano, in nome della naturale supremazia del superuomo.
 
Esaltavano la bella morte, ma si godevano la bella vita, i camerati romani, ignorati (se non protetti) dalla polizia e trattati benevolmente dai magistrati. Del resto, difendevano i privilegi della loro classe dalla minaccia comunista, per cui era naturale che la loro classe avesse per loro un occhio di riguardo.
 
In quegli anni si cementano virili amicizie, legami imperituri, così imperituri che resistono anche quando le cose cambiano e qualcuno, come si dice a Roma, perde la brocca. Successe che a Roma la sinistra rivoluzionaria si stancò di chiedere alla Repubblica democratica – nata sì dalla Resistenza, ma governata dai democristiani – di chiudere le sedi fasciste, e cominciò a chiuderle da sola, talvolta con i medesimi fascisti ancora all’interno. Come era avvenuto nei confronti dello Stato, il movimento infranse il monopolio fascista della violenza, e molti camerati se la videro brutta, anzi, bruttissima. Inoltre, qualche poliziotto e qualche magistrato presero sul serio il loro mestiere, e cominciarono ad indagare seriamente sulle attività di quei giovanotti esuberanti, scoprendo che – fra l’altro – qualcuno arrotondava la generosa paghetta con lo spaccio di eroina.
 
Dopo una fase di transizione, le strade si divisero: qualcuno continuò la sua guerra contro i “rossi” ed il “sistema”, altri scelsero un silenzioso rientro nei ranghi di famiglia. I primi intrapresero la strada della clandestinità, delle rapine, degli attentati e degli omicidi, i secondi quella dei consigli di amministrazione o delle segreterie di partito. Ma anche per questi ultimi l’antico cameratismo non finì in soffitta, insieme alle pistole ed ai tirapugni.
 
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Giuseppe Dimitri, detto Peppe, classe 1956, passa direttamente da boy scout a militante di Avanguardia Nazionale, che ha nel suo quartiere, l’EUR, una sua roccaforte. In breve tempo, Dimitri diventa una figura quasi mitica per i fascisti romani, in particolare per quelli della zona sud-ovest della Capitale, che avevano il loro punto di riferimento al “Fungo”, un lussuoso (ma bruttissimo) bar-ristorante, lo stesso frequentato dai boss della Banda della Magliana. Da Wikipedia: “Appassionato di tattica militare e di guerriglia urbana, allestì campi in boschi abbandonati o in montagne dai sentieri impervi, allo scopo di addestrare i giovani militanti alla lotta “corpo a corpo”, temprarne la resistenza fisica e abituarli alla sopravvivenza in situazioni estreme. Insegnava anche l’uso di “armi bianche”, come bastoni e soprattutto martelli”. La passione del camerata Peppe per i martelli non aveva nulla a che vedere con il bricolage: infarcito di mitologia nibelungica, si lanciava all’assalto dei giovani di sinistra gridando “Per Odino!” e brandendo quello che, anziché un banale utensile da ferramenta, considerava l’arma del dio Thor, signore dei tuoni e delle tempeste, nonché figlio dell’Odino di cui sopra.
 
Sciolta Avanguardia Nazionale, Dimitri, insieme a Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi, Walter Spedicato ed altri, partecipa alla fondazione di Lotta Studentesca, che presto diventerà Terza Posizione. Il 15 marzo del 1979, Dimitri partecipa con camerati come Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Alessandro Alibrandi e Livio Lai alla rapina di un’armeria, impresa che verrà rivendicata dai NAR. Il 27 novembre dello stesso anno, il camerata Peppe organizza e mette in atto un’altra rapina, questa volta ai danni della filiale della Chase Manhattan Bank del suo quartiere, l’EUR; il bottino verrà affidato per il riciclaggio a Franco Giuseppucci, detto Er Fornaretto o Er Negro (il Libanese della fiction Romanzo Criminale), uno dei fondatori della Banda della Magliana, con cui Peppe è in ottimi rapporti. Alla fine di quell’anno, il 14 dicembre, Dimitri viene casualmente intercettato dalla polizia: entrerà in carcere, dove sarà raggiunto qualche mese dopo da un mandato di cattura relativo alla costituzione di Terza Posizione, insieme a Fiore ed Adinolfi. Uscirà dal carcere solo nel 1988.
 
Sbolliti i furori antisistema, nel 1994 il camerata Peppe si risciacqua a Fiuggi, aderisce ad Alleanza Nazionale e nel 2001 il suo vecchio amico Alemanno, diventato Ministro per le Politiche Agricole del secondo governo Berlusconi, nonostante il passato di terrorista e le aderenze con la Banda della Magliana, arruola Dimitri come consulente al suo Ministero, carica che ricoprirà fino al 2006, quando un banale incidente stradale metterà improvvisamente fine alla sua vita movimentata. A pochi anni di distanza, lo stesso Alemanno, ora sindaco di Roma, griderà allo scandalo per il rifiuto del Brasile di estradare in Italia Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo. Dunque, se un terrorista è “rosso” deve marcire in galera anche a trentadue anni di distanza dai fatti che lo riguardano; se, invece, il terrorista è “nero” ed amico di Alemanno, lo assumiamo in un Ministero. Mistica fascista, evidentemente.
 
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Seguace ed emulo delle gesta del camerata Peppe, un personaggio divenuto presto tristemente noto nella zona di Roma esattamente al capo opposto della città, rispetto a quell’EUR dove erano cresciuti ed avevano prosperato i camerati di Avanguardia Nazionale ed i gangster della Banda della Magliana.
 
Fabrizio Mottironi, non ancora ventenne, alla fine degli anni 70 è il leader assoluto dei giovani di Terza Posizione inquadrati nel Comitato Rivoluzionario Quartiere Trieste (CRQT). Una vaga somiglianza con Alex, il protagonista del film Arancia Meccanica, contribuisce ad alimentare il mito violento del giovane, sempre in prima fila negli scontri con i simpatizzanti di sinistra. I “bolscevi” del liceo Giulio Cesare sono gli obiettivi preferiti degli assalti del CRQT: nel 1979, le aggressioni erano quotidiane, sia davanti la scuola che nelle vie del quartiere. Fabrizio/Alex aveva il vezzo di impartire severe punizioni ai camerati che commettevano qualche errore: la più usata era l’ordine di eseguire un certo numero di flessioni a terra, scena ripetutasi decine di volte nel piccolo giardino di fronte al Giulio Cesare dove stazionavano abitualmente i militanti del CRQT.
 
E’ di quel periodo la storia di un attentato ai danni della FLM, l’allora sindacato unitario dei metalmeccanici, la cui sede nazionale si trovava a poche centinaia di metri dal Giulio Cesare: si racconta che, mentre era in corso una riunione sindacale, un giovanotto si affacciò dalla finestra aperta e lanciò nella stanza un candelotto di dinamite con la miccia accesa. Non fu una strage solo perché un sindacalista ebbe la presenza di spirito di staccare la miccia, ed all’epoca c’era chi giurava che il giovanotto affacciatosi alla finestra assomigliasse maledettamente all’Alex di Arancia Meccanica. E’ una storia difficile da verificare, ma sono in tanti ad averla sentita.
 
Come era inevitabile, le violenze di strada dei fascisti del CRQT finirono per provocare la reazione degli attivisti di sinistra: per alcuni giorni, massicce “ronde proletarie” spazzarono le strade intorno al Giulio Cesare, ed almeno in un’occasione il giovane Mottironi ed i suoi camerati si salvarono soltanto grazie all’intervento della polizia, che andò a prenderli con i blindati nel portone del palazzo in cui si erano asserragliati, circondati da centinaia di “bolscevi”. Da quel momento, l’attività del CRQT andò scemando, anche a causa del passaggio ai neonati Nuclei Armati Rivoluzionari di molti dei militanti di Terza Posizione. Il nome di Mottironi finisce sui giornali nel settembre del 1980, quando viene arrestato, con altre quattordici persone: resterà in carcere per cinque anni, ma al processo verrà assolto.
 
Nel 2003, il Ministero delle Politiche Agricole retto da Alemanno crea una società privata per promuovere i cibi italiani nel mondo, la Buonitalia S.p.A., e vi pone a capo Fabrizio Mottironi, che non proclama “Spezzeremo le reni alla Grecia!”, ma un più amatriciano “Invaderemo di pasta le Americhe!”». Il tempo passa per tutti, anche per i vecchi nazional-rivoluzionari, che vanno trasfigurandosi negli odiati democristiani di una volta: infatti, Buonitalia – arrivata a costare la bellezza di novanta milioni di euro dei contribuenti – ospiterà nei suoi uffici di Via del Tritone una ventina di uomini chiamati senza selezione da Gianni Alemanno, tutti di provata fede cameratesca, fra i quali Manfredi Minutelli, ufficiale parà della Folgore, direttore del sito “destrasociale.org”, che diventa direttore del marketing.
 
L’aspetto forse più incredibile della vicenda è che Buonitalia è sopravvissuta non solo per tutta la durata del secondo governo Berlusconi, ma anche durante i due anni del governo Prodi sostenuto dai “comunisti” Bertinotti e Diliberto, e solo oggi il ministro (di centrodestra!) in carica, l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan, sta tentando di liquidare la dispendiosa ed inutile struttura, osservando che “Ci sono già una direzione generale e due divisioni che si occupano di valorizzazione dei prodotti agroalimentari italiani”.
 
Insomma, il ministro Gelmini ha ragione: tolta di mezzo l’eredità del ‘68, niente più figli dottori per gli operai, ma tanti figli della lupa a spartirsi la torta. Ma l’inchiesta prosegue.

Le puntate precedenti

https://www.contropiano.org/it/news-politica/item/6069-i-forchettoni-neri-prima-puntata

https://www.contropiano.org/it/news-politica/item/6088-i-forchettoni-neri-seconda-puntata

https://www.contropiano.org/it/news-politica/item/6115-i-forchettoni-neri-terza-puntata

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