In un’assemblea tenutasi a Padova per preparare la manifestazione del 31, un sindacalista ha raccontato il seguente episodio. In un’azienda metalmeccanica di Eraclea, vicino Venezia, il padrone ha convocato una dipendente e le ha intimato: “domani sei fuori Non ti presentare più al lavoro perché sei licenziata”. La lavoratrice ha telefonato al sindacalista, il quale per prima cosa le ha chiesto il numero di dipendenti della sua azienda. Essa ha risposto che erano almeno 30. Ovviamente le è stato allora spiegato che il padrone non poteva licenziarla così. Il giorno dopo allora, su consiglio del sindacato, la lavoratrice si è presentata all’ingresso del lavoro con un testimone. Il padrone l’aspettava, ha mangiato la foglia e le ha semplicemente detto: “sì sì, entra pure, appena c’è la legge sul licenziamento economico sei fuori”.
A proposito della stucchevole e ipocrita discussione sugli usi e gli abusi della cancellazione dell’articolo 18, questo episodio ci dice che nelle aziende c’è chi si sta già preparando a fare la pulizia sociale nei luoghi di lavoro. D’altra parte questa è proprio la funzione dell’articolo 18: impedire lo stato di ricatto permanente nei confronti dei lavoratori, mantenere un minimo di equilibrio a favore di questi ultimi di fronte a un sistema di potere aziendale già spropositatamente forte per il mercato, la globalizzazione, le leggi che hanno esteso il precariato.
Mentre i padroni si preparano, il palazzo chiacchiera e pasticcia.
Non si è particolarmente maliziosi nel cogliere il fatto che da un lato il governo difende a spada tratta la cancellazione dell’articolo 18 ma dall’altro rinvia il confronto parlamentare decisivo a dopo le elezioni amministrative. Questo permette al Pd di decidere all’unanimità – quindi anche con il voto di chi l’articolo 18 lo considera un tabù da superare – di chiedere modifiche non meglio precisate al provvedimento del governo. Susanna Camusso, a sua volta, dopo l’infelice appuntamento mediatico a Cernobbio con Monti, annuncia lo sciopero generale per la fine di maggio, perché non questo autunno? Non parliamo di Cisl e Uil, che dicono contemporaneamente una cosa e il suo contrario. Insomma, di fronte alla prima vera crisi di consenso che registra finalmente il governo Monti, con la maggioranza della popolazione italiana contraria alla distruzione dell’articolo 18 e con una crescita di scioperi e mobilitazioni in tutto il paese, i palazzi politici e sindacali sembrano più attenti a non dare troppo fastidio al governo piuttosto che ad affrontare davvero il dramma sociale in atto.
Così non va proprio.
Neppure in Cgil va bene così. La verità è che siamo tutti di fronte a delle scelte: o si difende l’articolo 18 e si lotta contro Monti, oppure salvare Monti è la priorità e allora l’articolo 18 finisce in cavalleria. I pasticci non servono a niente e a nessuno. Anche perché dalle pensioni al lavoro, ai servizi sociali, alle tasse sulle buste paga, oramai è chiaro a tutti qual è la linea di questo governo: far pagare tutta la crisi al mondo del lavoro, ai pensionati, ai giovani e alle donne. Così Monti può andare all’estero a chiedere di investire in Italia perché gli italiani costano e pretendono poco. Siamo noi, con i nostri terribili sacrifici, che stiamo abbassando lo spread e stiamo facendo risalire i guadagni della borsa e dei ricchi.
Il 31 marzo a Milano scendiamo dunque in piazza per costruire l’opposizione al governo Monti e alla sua politica. Per dire basta ai giochini e alle critiche inefficaci che, come per le pensioni, lasciano poi passare la controriforma più feroce d’Europa. Per costruire una vera alternativa al governo delle banche e della finanza che ci sta schiacciando. Il 31 marzo a Milano ripartiamo.
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