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Monti, il reazionario contro i lavoratori

La sortita di ieri in videoconferenza è di quelle che non lascia dubbi su cosa intenda il premier quando dice che vuol “cambiare la mentalità” del paese: azzerare definitvamente e poi spargere il sale sulle rovine del movimento operaio, della sua storia, dei diritti che ha conquistato in oltre un secolo di lotte, sacrifici, persecuzioni, stragi, vittorie.
E’ sbagliato e fuorviante chiamare questo programma “razionalizzazione” o “modernizzazione” (peggio ancora “riforme strutturali”). E’ reazione allo stato puro. Va infatti sempre ricordato che i reazionari sono completamente diversi dai conservatori. Questi ultimi intendono in genere ristabilire uno statu quo ante, o mantenere privilegi e posizioni di rendita acquisite.
I reazionari, al contrario, hanno il piglio “innovativo” di chi si presenta per cambiare tutto e rovesciare come un guanto la situazione. In piena crisi diventano pericolosissimi perché – molto meglio della “sinistra riformista” o di uella “anragonista” che vive con la testa girata all’indietro – “colgono l’occasione” per creare una nuova condizione nei rapporti tra le classi. Che poi questa nuova condizione sia la riproposizione del comando assoluto del capitale sulle persone è adecisamente scontato. Ma non si tratta mai di un ritorno a prima, ma sempre dell’instaurazione violenta di un nuovo ordine. E’ il fascismo in nuce, non il “conservatorismo” mostalgico e senza più spinta propulsiva.

Un paio di articoli precisano dettagliatamente i passaggi di ieri.

Il prof-pensiero
«Lo Statuto ha limitato i posti di lavoro»
In videoconferenza, come da un’astronave aliena, il presidente del consiglio ha ammannito ai convenuti all’Università di Roma Tre alcune pillole del suo pensiero economico-sociale. Liberismo allo stato puro, senza alcuna contaminazione con la società reale. Vediamole.
Alcune disposizioni della legge 300 del 1970 (lo «Statuto dei lavoratori») «pur ispirate all’intento nobile di difendere i lavoratori, hanno contribuito a determinare una insufficiente creazione di posti di lavoro».
In passato «c’è stato uno scarto tra l’etica delle intenzioni e l’etica della responsabilità. Alcune decisioni importanti puntavano a fare bene, ma spesso non sono state contraddistinte da pragmatismo».
«Certe disposizioni, giustamente, tese a tutelare le parti deboli nei rapporti economici hanno finito, impattando nel gioco del mercato, per danneggiare le stesse parti che intendevano favorire».
Per farsi capire bene, visto che in materia di diritto del lavoro è facile scivolare nell’enunciazione di princìpi non sempre facili da rintracciare nella realtà empirica, Monti ha pensato bene di fare un esempio alla portata di tutti: quello della casa.
«Certe norme sul blocco dei fitti hanno reso difficile la disponibilità di alloggi in affitto a favore di coloro che si volevano tutelare».
Non è affatto difficile arrivare alla conclusione che, nella filosofia di Monti, ogni «protezione» sociale debba essere eliminata perché produrrebbe – suo malgrado – il contrario di quel che si prefigge. Quindi, nella giungla dei rapporti economici tra «deboli» (il singolo richiedente lavoro) e «forti» (gli imprenditori di qualunque livello), i primi avrebbero tutto da guadagnare.
Come sempre, fin dai tempi di Berlusconi, nel pomeriggio è arrivata la precisazione minimizzante. Le parole del premier «non avevano alcun intento polemico». Quella di Monti sarebbe solo «un’impostazione di lunga data» (viene allegato un testo scritto dallo stesso Monti «il 24 aprile 1985»). Appunto.

Quanto lavoro senza diritti
Il presidente del consiglio scivola nell’ideologia, irrita la Cgil, chiama la risposta dei giuslavoristi

Francesco Piccioni
La provocazione di Mario Monti sullo Statuto dei lavoratori non poteva restare senza risposta e contestazioni di merito, anche perché stavolta è andato decisamente fuori del suo campo. Su più campi.
Sul piano politico-sindacale, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha sentito subito puzza di bruciato. «Non vorrei che qualcuno, siccome non c’è una idea su nulla, si reiventasse una logica contro i lavoratori. Mi pare che abbiamo fatto già abbastanza contro i lavoratori». Una logica che appartiene al «peggiore liberismo, quello che ha teorizzato che la diseguaglianza abbia fatto crescere il mondo mentre sono quattro anni che il mondo non sa uscire dalla crisi determinata proprio da quella logica lì». Una dimostrazione del fatto che «questo governo non ha idea su cosa fare per lo sviluppo e la crescita. È la ripetizione di un film già visto. Si continua a riproporre ricette che hanno già dimostrato la loro fallimentarietà oppure si butta la palla in un altro campo».
I diritti del lavoratore
I giuslavoristi, naturalmente, entrano nel merito e nella «filosofia» che Monti butta lì come un’ovvietà. Giovanni Naccari, una vita nella consulta giuridica della Cgil, lo Statuto dei lavoratori l’ha visto nascere. «Monti è sicuramente un bravo economista di scuola liberista ma quando esce dal suo campo dice cose che non hanno riscontro nella realtà; né sotto il profilo scientifico, né dei contesti storici». Soprattutto, non sta in piedi l’idea che esista una contraddizione tra «quantità dei diritti» e «quantità dei posti di lavoro». In fondo, si tratta del solito tentativo di far passare un lavoratore «protetto» dal diritto come un «fannullone» o un privilegiato, ammiccando esplicitamente alle sacche di clientelismo esistenti in alcuni settori. «Chi è che ha voluto decenni di regalie e clientele? La stessa classe dirigente che ha voluto Monti premier».
Sul piano scientifico, al contrario, «la compatibilità tra diritti e sviluppo è acclarata» (il «libro bianco» di Delors); e anche tra efficienza e proprietà statale (Massimo Severo Giannini). Naccari ricorda che «allora erano d’accordo tutti, anche le imprese e Gianni Agnelli; erano consapevoli di poter avere una tregua nel conflitto sociale, che avrebbe prodotto sviluppo economico». Del resto, non è mai stato vero che le imprese tendono a non assumere se sanno di non poter licenziare: «i licenziamenti collettivi» per stato di crisi sono sempre stati possibili, la Fiat, nel 1980, mandò via in un sol colpo 23.000 lavoratori.
La «stagione dei diritti» arrivò al culmine di un forte periodo di crescita (il «boom») e fu interpretata come un «doveroso scambio» con la lunga compressione imposta in precedenza («sia sotto la dittatura fascista che nel ventennio successivo»). Un «modello» che non ha caratterizzato soltanto l’Italia ma l’Europa intera, contemporaneamente; al punto che «oggi i cinesi stanno studiando il nostro sistema di welfare». Lo sfruttamento senza diritti, infatti, «funziona nel periodo di ‘accumulazione originaria’», quando un paese passa a forza dalla dimensione agraria ad una industriale. Poi deve «sviluppare il mercato interno». L’espansione dei diritti, dunque, è figlia di una visione «lungimirante ed evoluta», «smorza tensioni che avrebbero ripercussioni economiche enegative». Oggi, dopo anni di «riforme pensionistiche» e del mercato del lavoro, «abbiamo lavoratori anziani licenziabili e giovani precari per sempre; è questa la società che hanno in mente?». Lo Statuto recepisce un principio costituzionale che nel lavoro cerca l’«emancipazione della persona», non solo l’agente economico. Certo, per chi vede il mercato secondo la vulgata protestante (il «successo come prova del favore divino»), tutti i diritti dello Statuto (studio, riunione, ecc) appaiono un intollerabile «spreco».
Casa, affitti, equo canone
Con l’esempio sulle case Monti cade platealmente nella demagogia. «Certe norme sul blocco dei fitti hanno reso più difficile la disponibilità di alloggi a favore di coloro che si volevano tutelare». Ma le «norme», da sole, non fanno il mercato. L’economia reale conta un po’ di più. E là dove non c’è – come in Italia negli ultimi 30 anni – una «politica della casa», ecco restringersi improvvisamente «l’offerta» di abitazioni, che facilita la salita dei prezzi (sia dell’acquisto che degli affitti).
Una prova? Guardiamo i dati (del 2004, ma la situazione è anche peggiorata dopo le «cartolarizzazioni» di Tremonti). In Italia le case popolari costituiscono solo il 4% del totale delle abitazioni occupate. In Francia la percentuale sale al 17%, nell’iperliberista Gran Bretagna al 18, tra i «rigoristi» del nord Europa si arriva al 20% della Svezia, al 25 dell’Austria e addirittura al 35% dell’Olanda. Anche alla Bocconi dovrebbero sapere che il rapporto domanda/offerta pesa più delle «norme», bene o malintenzionate che siano.

da “il manifesto”

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