C’è poco da ciurlare nel manico. L’articolo di Roberto Mania sul giornale-gazzetta del governo Monti (che riportiamo più sotto) mette i piedi nel piatto. Citando una ricerca dell’università di Firenze e della London School of Economics, fotografa una realtà che indica due fattori per noi estremamente significativi: il primo è che mentre in Portogallo, Grecia e Spagna sindacati e movimenti sociali animano la protesta sociale contro le misure di austerity imposte dai governi e dall’Unione Europea, in Italia il governo lavora praticamente indisturbato; il secondo è che le singole lotte (dall’Alcoa all’Ilva alla Val di Susa) sono spesso isolate e non riescono a connettersi tra loro per diventare opposizione generale, anche perchè manca la “sponda politica” in quanto il Parlamento è stato svuotato da ogni opposizione all’operato del governo. Una riflessione analoga – seppur su criteri decisamente diversi da quelli citati da Mania – viene avanzata dai compagni di Clash City Workers di Napoli che pubblichiamo in altra parte del nostro giornale.
La questione ci tocca e ci riguarda seriamente. Soprattutto alla vigilia della sfida della manifestazione nazionale del prossimo 27 ottobre a Roma, che punta il dito esplicitamente contro il governo Monti e le sue politiche e contro i Trattati Europei che stanno devastando il paese dal punto di vista sociale e democratico.
E’ evidente che il sostegno tripartisan (Pd,PdL,Udc) al governo Monti di oggi e, forse, anche a quello di domani, ha potuto contare sulla complicità dei sindacati concertativi. Una operazione questa che ha imbrigliato ogni opposizione “generale” alle misure antipopolari del governo e della Ue/Bce ed ha tenuto divise le singole lotte di resistenza dei lavoratori o dei movimenti sociali, stendendo così una mancanza di prospettiva che ha portato i lavoratori a forme di lotte estreme (nelle gallerie o sui tralicci e le torri) per cercare di dimostrare di esistere e di avere problemi seri da risolvere. Ma tutti i corpi intermedi (partiti, sindacati, associazionismo) hanno operato affinchè non ci fosse alcuna connessione o ricomposizione (scioperi generali, manifestazioni, occupazioni) né che che tale generalizzazione in qualche disturbasse la tabella di marcia del governo Monti.
Ma se questo è vero, è da qui che occorre partire cominciando anche a discutere sulle “nostre” responsabilità, ovvero quelle del sindacalismo conflittuale, dei movimenti più attivi sul piano del conflitto sociale e delle organizzazioni della sinistra di classe che hanno smesso da più o meno tempo di “tirare la giacca al Pd” rivelatasi una micidiale illusione sul piano nazionale e locale.
Se la gabbia tra politica e sindacati “complicizzati” con il governo Monti ha assicurato una sostanziale pace sociale nel nostro paese nonostante le sue misure antipopolari, occorre chiedersi come mai ancora non c’è stata una rottura di tale scenario e perchè i settori sociali in evidente sofferenza, ancora non vedano nelle nostre soggettività un punto di tenuta, resistenza e magari riaffermazione della coscienza dei propri interessi nella lotta politica.
La risposta non è affatto semplice né paiono utili attitudini autoconsolatorie che spesso liquidano la questione assegnando le responsabilità solo a “tutti gli altri”. Da qui non si sfugge. E’ il punto sul quale da almeno un paio d’anni insiste con una serie di stimoli e proposte la Rete dei Comunisti, anche dalle pagine di questo giornale, o sul quale si sta discutendo ad esempio nel Comitato No Debito che ha avuto il pregio di tenere aperto un processo di ricomposizione di forze diverse a fronte del tic della frammentazione, o del tentativo di unificare le forze del sindacalismo di base (vedi l’Usb) per superarne i limiti e le “gelosie” corporative o di appartenenza e mettere in campo un sindacato conflittuale capace di intercettare le mille facce del lavoro e di non essere solo l’ultimo autobus per lavoratori e lavoratrici rimasti senza alternative. E’ ormai abbastanza evidente la impetuosa riduzione dei settori sociali con “coscienza di per sè” seppur a fronte di una estensione della “classe in sè” dovuta anche alla proletarizzazione di parte dei ceti medi.
Da qualche parte occorre cominciare. La manifestazione nazionale del 27 ottobre, No Monti Day, è il primo appuntamento politico e di massa di questo autunno nato proprio dalla constatazione del vuoto politico di indicazione e conflitto che, ad esempio, “la sinistra” sta lasciando aperto perchè troppo concentrata sulle prossime elezioni – che rischiano tra l’altro di diventare le più inutili della storia repubblicana. E’ ovvio che una manifestazione non riempirà mai tale vuoto, dunque occorre riempire il prima e il dopo la manifestazione di proposte, contenuti, azioni, iniziative e processi ricompositivi. E’ anche per questa ragione che la manifestazione del 27 ottobre deve cercare di capitalizzare i conflitti in corso e predisporsi a quelli in prospettiva. Se questo è vero la manifestazione – a differenza del 15 ottobre dello scorso anno – non potrà che essere “a mani nude e a volto scoperto”, perchè questa è oggi la sua funzione e tale criterio deve essere compreso da tutte e tutti coloro che vi parteciperanno. Se è un punto di ripartenza non può essere un tonfo che riporta la situazione ancora più indietro di quanto ci segnalano oggi anche i giornali del’avversario di classe.
Infine, rispetto all’articolo di Mania su La Repubblica di oggi, vorremmo segnalare un aneddoto. Fu proprio a causa di un articolo di Miriam Mafai su La Repubblica nell’ottobre del 2001, nel quale si compiaceva che dopo l’11 settembre in Italia non ci fossero più in giro manifestazioni o bandiere a sostegno dei palestinesi, che insieme a Stefano Chiarini nacque il Forum Palestina. Sei mesi dopo quell’articolo quasi centomila persone sfilarono a sostegno dei palestinesi per le strade di Roma il 9 marzo del 2002, anche avendo condotto una asprissima battaglia politica e culturale contro le inerzie e l’opportunismo della “sinistra” sulla questione palestinese. Una smentita a tutto tondo per chi voleva impropriamente celebrare la sconfitta di una giusta causa.
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Da La Repubblica di oggi 28 settembre
In Italia per adesso nessuna manifestazione anti-austerity come a Madrid e ad Atene
Roma non rischia il contagio della piazza
di Roberto Mania
ROMA — L’anomalia italiana si chiama “governo tecnico” sostenuto da una grande coalizione. Se le piazze nostrane restano vuote mentre si riempiono quelle madrilene e quelle di Atene e Salonicco per protestare contro le politiche di austerity è soprattutto perché da noi manca un’opposizione di sinistra che faccia da sponda ai movimenti sociali. La tesi emerge da un’indagine in progress (“La politica sotterranea”) che sta realizzando un gruppo di ricercatori, guidati da Donatella Della Porta, professoressa di sociologia presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, con il coordinamento della London School of Economics. C’è il contagio della speculazione, non quello della protesta. La moneta unica non ha unificato le piazze, un po’ come con lo spread.Certo, ci sono le proteste dei lavoratori dell’Alcoa, degli operai dell’Ilva, dei minatori del Carbosulcis, dei cassintegrati della Fiat di Termini Imerese. Addirittura gli scioperi sono aumentati nell’ultimo anno del 25 per cento. Qua e là affiorano pure proteste dei precari. Ma ciascun gruppo protesta per sé, spesso scegliendo forme estreme: la discesa a quattrocento metri di profondità, le notti sui tralicci o sulle torri a sessanta metri di altezza. Qualche anno fa la salita sui tetti dei ricercatori. Nessuno, però, unifica le proteste. Non c’è un collettore. Nemmeno i sindacati lo sono, nonostante siano quasi sempre parti della protesta. Ma pesano le loro divisioni e lo scarso appeal tra i movimenti sociali di base.Dice Della Porta: «Le politiche che gli economisti definiscono liberiste non hanno risentito del passaggio da Berlusconi a Monti, al netto della delegittimazione e dell’inaffidabilità del primo. Ma quanto c’era il governo di centro-destra tutta una serie di organizzazioni più o meno vicine al Pd andava in piazza, offriva le risorse logistiche, mentre ora frena».Perché, al di là dello spontaneismo dei movimenti modello indignados od occupy, una protesta richiede uno sbocco politico. Chi va in piazza deve anche pensare che le proprie ragioni troveranno ascolto in Parlamento, quella che i ricercatori chiamano «opportunità politica». Altrimenti muta la natura della protesta che diventa testimonianza. Nel Parlamento italiano — sostiene Della Porta — «c’è una grande coalizione, anche se non si può dire dopo lo scontro nella stagione del berlusconismo». Questa è l’anomalia. Perché nella stagione dell’emergenza finanziaria, non c’è spazio per la formula antica dei “partiti di lotta e di governo”.
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stefaNO
Tutto l’articolo mi trova in linea ma al di là del discorso dell’assenza di una sponda in parlamento che peraltro anche se ci dovesse essere dovrebbere essere molto più a sinistra di quella attuale c’è il problema dell’incisività “tecnica” delle tradizionali forme di lotta. Anche la lotta estrema fino al suicidio ma pur sempre di denuncia di “piazza” come quella di una persona che si dà fuoco, non riesce a mobilitare le coscienze e le proteste diffuse che di fronte ad un atto così estremo dovrebbero, in teoria, coalizzarsi spontaneamente al di là dei credi politici di base. Penso che oltre all’assenza di fiducia nel parlamento e in associazione a questa di una forza al suo interno pronta ad aiutare e dare seguito alla protesta credo ci sia un problema di metodi di lotta. Lo dice chi come me ha partecipato a decine di proteste di piazza: ho visto negli anni un aumento di forze di repressione e una riduzione drastica anche dei luoghi fisici dove esprimere il dissenso. Ho più proposto, anche ad alcuni settori sindacali , di attuare forme atipiche di protesta, mettendo per esempio in crisi la macchina del turismo a Roma ma pare sia molto difficile….