Fin dall’apparizione del governo Monti abbiamo parlato di “invasione” da parte della Troika (Unione Europea, Bce, Fmi). Era decisamente troppo evidente che la defenestrazione del Caimano rispondeva ad esigenze non più e non solo italiche, ma di ordine continentale. Chi aveva gioito allora era un ingenuo che non aveva visto arrivare le truppe corazzate dell’Unione Europea abbagliato (o schifato) dalle bande semi-mafiose del Cavaliere.
Da allora ad oggi nessun governo è stato più nominato in conseguenza di un voto popolare, rendendo altrettanto palese che il risultato elettorale non conta granché davanti all’idea di governance che discende da Bruxelles e dintorni. Al massimo, può complicare i calcoli per la composizione di un esecutivo che goda della fiducia parlamentare, nulla di più.
Ora il governo Renzi, chiedendo la fiducia sulla legge delega sul Jobs Act, fa un deciso passo avanti. La novità assoluta è data dalla “legge delega”, ovvero da un testo ancora ignoto che affida al governo il compito di definire la “riforma del mercato del lavoro”. Il Parlamento, insomma, il potere legislativo che dovrebbe rappresentare al massimo grado (e con la massima precisione possibile) la “volontà popolare”, abdica al proprio ruolo e cede il proprio potere all’esecutivo.
Un costituzionalista normale griderebbe al golpe istituzionale. Il “custode della Costituzione” (ahinoi, Giorgio Napolitano) dovrebbe chiamare al Coille il capo del governo e strigliarlo per bene, per l’aperta violazione allo spirito e alle disposizioni della Carta.
Nulla di tutto ciò accade. Il Parlamento è commissariato dal governo e ridotto a “accampamento di manipoli”, come 92 anni fa. Invece che in fez e stivali girano per l’emiciclo in gessato e tailleur, ma la loro utilità pratica è la stessa: alzare la manina (oggi: schiacciare il pulsante) per “dare la fiducia” al premier, qualsiasi cosa abbia in testa.
Non è però una riedizione del fascismo. Lì “la nazione” era il mito osceno con cui nascondere e chiudere il conflitto di classe che si trascinava già dentro la Prima Guerra Mondiale ed era infine esploso col “biennio rosso”. Qui si deve semplicemente obbedire alla Troika, offrendo la testa e la vita dei lavoratori di questo paese (ma lo stesso avviene in tutti gli altri dell’Europa a 28) in cambio – forse – di un margine più “flessibile” per le politiche di bilancio.
Questo “retroscena” di Francesco Verderami, sul Corriere della Sera, mette nero su bianco quel che è stato negato per tre anni quasi esatti (monti era “asceso a palazzo Chgi” nel novembre 2011, dopo esser stato nominato senatore a vita poche ore prima): l’amministrazione di questo territorio è in altre mani. Il nostro sistema di vita è determinato da altri interessi, che ci prescindono totalmente. Siamo accomunati nella stessa sorte ai lavoratori e cittadini greci, portoghesi, ciprioti, spagnoli, irlandesi ed ora – presto – anche francesi: ma quasi obbligati a “pensarci” solo in termini nazionalistici. Un paese di 60 milioni di persone cambia il suo modo di vivere come “parte di una trattativa” su cui non viene neppure informato. Di cui gli vengono nascosti i termini concreti, gli interessi che vengono così soddisfatti.
Fa molto comodo, al potere multinazionale che domina le inattingibili “istituzioni continentali”, questo colpire contemporaneamente tutte le popolazioni del continente e vedere reazioni soltanto “locali”, regionali (cioè: nazionali), slegate tra loro, destinate alla sconfitta una alla volta e ognun per sé. Le manifestazioni di Napoli e Milano, contro i vertici europei, colgono questo aspeto. E’ la prima volta. Inevitabilmente in modo ancora istintivo, ancora senza un afflato e un progetto all’altezza della sfida. Ma colgono il problema, il vero e primo “nemico” nel conflitto tra le classi in questo continente.
I “politici” italiani, che li abbiate votati o no (come Renzi), sono semplici collaborazionisti incaricati di mediare gli interessi del capitale con base in Italia rispetto a quelle indicazioni sovranazionali, di trovare insomma “la quadra” tra il mantenimento di posizioni in ambito locale e soddisfacimento di interessi di proporzioni continentali. Nulla di più.
La conferma, come si diceva, è affidatata al giornale dell’ex “salotto buono” della borghesia (non più) nazionale, il Corsera.
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Renzi e la mossa per evitare la troika: commissariare il Parlamento
Il capo del governo e la fiducia per scongiurare il commissariamento dell’Italia Padoan: se all’Ue non bastasse quello che offriamo, non riusciremmo a risalire la china
di Francesco Verderami
Renzi commissaria il Parlamento per evitare che la troika commissari l’Italia. D’altronde, se non fosse una autentica emergenza nazionale, difficilmente Napolitano sarebbe rimasto silente dinnanzi a un governo che pone la fiducia su una legge delega, con cui di fatto le Camere e le forze politiche vengono estromesse dalla scrittura del provvedimento. Ma il Jobs act non è una riforma come altre, è parte essenziale della «trattativa» con Bruxelles, come aveva avuto modo di spiegare la scorsa settimana il titolare dell’Economia in Consiglio dei ministri, poco prima di recarsi al Quirinale.
L’Europa – secondo Padoan – «ritiene sia insufficiente» che l’Italia non sfori il 3%, perché chiede che «almeno mezzo punto» venga destinato all’abbattimento del debito pubblico: «Noi offriamo invece uno 0,1%, alcuni tagli strutturali e soprattutto la riforma del mercato del lavoro. E confidiamo si comprenda che, se non fosse accolta la nostra proposta, non riusciremmo a risalire la china». Parole crude che avevano fatto calare il gelo a palazzo Chigi. «Ma noi – aveva subito ripreso Renzi – non possiamo accettare che ci venga tenuta la testa sott’acqua».
Ecco qual è il valore del Jobs act, inserito dal premier nella «trattativa» con Bruxelles per evitare quelle che definisce «le regole capestro volute dall’Europa all’epoca del governo Monti». Regole che, «fossimo costretti ad applicarle, costerebbero 40 miliardi. Invece io punto a fare una manovra espansiva per rilanciare l’economia. E lavoreremo per realizzarla, alle condizioni date». Per riuscirci bisogna intanto sfuggire alle «regole capestro» che «ha votato Bersani mica io», va ripetendo Renzi quasi a voler esorcizzare l’esito negativo di un «negoziato che – come ha tenuto a sottolineare Padoan – sarà comunque difficile».
Di certo sarebbe stato impossibile se il governo non avesse accelerato sulla riforma del lavoro, perciò il premier ha forzato la mano, grazie anche a una copertura istituzionale che è dettata dall’emergenza nazionale. A sua volta questo passaggio di natura economica non è politicamente a saldo zero, produce effetti sul sistema che nemmeno la riforma elettorale avrebbe determinato. Sul Jobs act – per esempio – si misurerà la solidità del rapporto di Renzi con Alfano, che non a caso l’altra sera in Consiglio dei ministri aveva insistito sull’utilità di porre al Senato la fiducia «anche per valorizzare il profilo riformatore della maggioranza, per darle quel tratto distintivo che si deve a una riforma epocale».
Il premier aveva convenuto con il leader di Ncd, senza mostrarsi preoccupato per le resistenze della minoranza democratica: «… Sarà poi responsabilità dei singoli parlamentari decidere se fare andare avanti il governo o metterlo in crisi. Non penso accadrà. Scommetto invece che arriveremo al 2018». È da vedere se davvero Renzi arriverà a fine legislatura, ma non c’è dubbio che la sua scommessa sul voto di palazzo Madama sembri realistica, che il suo esecutivo otterrà la fiducia, «magari con qualche assenza». Il riferimento del premier era ad alcuni suoi compagni di partito, ma è chiaro che sul Jobs act si va profilando un clima di larghe intese, per quanto camuffato.
Formalmente Berlusconi vorrà marcare la distanza, in realtà il «soccorso azzurro» è pronto a materializzarsi se ce ne fosse bisogno per bilanciare – con qualche assenza – il dissenso tra i democrat: «Vedremo se Verdini verrà a votare contro il suo governo», ridevano ieri sera alcuni senatori forzisti. Ma non è solo per idiosincrasia verso la troika che il Cavaliere vuole evitare problemi al premier. Basti vedere la trattativa in corso tra Pd e FI sulla legge sul conflitto d’interessi, affidata all’azzurro Sisto e caratterizzata addirittura da una norma sul blind trust: fumo negli occhi un tempo per Berlusconi, a cui oggi interessa piuttosto il matrimonio tra Telecom e Mediaset, che per realizzarsi necessita di un «ritocchino» alla legge Gasparri…
Ma è il Jobs act la chiave di volta. La drammatica crisi economica sta accelerando il processo di archiviazione della Seconda Repubblica e nel frattempo ha rottamato gli ultimi retaggi della Prima: perché l’incontro di ieri tra Renzi e i sindacati, più che l’inizio di un dialogo è parso la fine di un’era. Se ne sono resi conto i rappresentanti delle forze dell’ordine, ricevuti poco dopo a palazzo Chigi. Quando il premier ha ascoltato il loro plauso per alcune sue idee, li ha interrotti: «Se conosceste tutte le riforme che ho in mente, non so se mi applaudireste» .
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