Due interviste tristissime, ma che danno i parametri esatti di come sia inutile attendersi qualcosa di politicamente positivo dalla rottura interna all’universo Pd. Susanna Camusso e Massimo D’Alema hanno dato il meglio di sé sulle pagine di Repubblica e de IlSole24Ore. Purtroppo questo “meglio” non ha consistenza. E Renzi lo sa benissimo.
L’unico “ex comunista” che sia riuscito a diventare presidente del consiglio – accoltellando Prodi alla schiena – non sa o non può andare oltre la pura critica tattica: “così Renzi divide il paese”. Non prova neppure a cogliere, insomma, il passaggio d’epoca, di regime, il rovesciamento implicito nella transizione dal modello sociale chiamato “patto tra i produttori” (welfaristico, consociativo, co-determinato) al “paradiso per le imprese multinazionali”. Passaggio che conosce probabilmente molto meglio di noi, ma di cui non vuol parlare, visto che fa parte e non da oggi dell’establishment europeo. Basterebbe la sua lamentazione sul fatto erano più liberisti i suoi governi (e quelli di Prodi) per far capire come da questa parte non ci sia alcuna intenzione di tracciare neppure l’ipotesi di una “terza via” tra costruzione del nuovo regime e “rappresentanza riformista” di interessi sociali (poco) divergenti da quelli dell’impresa.
Più “ficcante” quella del segretario della Cgil, che almeno ci dà una notizia importante (anche se c’eravamo arrivati da tempo): “Renzi è a Palazzo Chigi per volere dei poteri forti, lo ha ammesso Marchionne”. In effetti, il conducator della Fiat-Fca lo aveva detto pubblicamente, circa un mese fa, e nessuno aveva trovato “inquietante” (usiamo di proposito questo aggettivo, tando di moda tra i “dietrologi di sinistra” che per decenni hanno appestato la discussione politica) che “un cittadino svizzero che ha spostato la sede legale e fiscale della Fiat all’estero possa dire del Presidente del consiglio ‘L’abbiamo messo là per togliere i rottami dai binari’ senza suscitare alcuna reazione”.
E’ il nuovo mondo che proviamo a descrivere e interpretare da anni, cercando anche di costruire un’opposizione sociale e politica all’altezza del “nemico” (ci piacciono i compiti difficili, lo ammettiamo, ma gli altri sono solo inutili). E’ un mondo dove “la politica” nel senso novecentesco non esiste più, perché non c’è più una “sovranità nazionale” che prende in carico anche la totalità della popolazione residente in un determinato territorio e quindi deve “soppesare” le scelte di politica economica in modo da “mantenere la coesione sociale”. E’ il mondo in cui le imprese-guida del sistema capitalistico – le grandi multinazionali, in sintonia con o spesso scavalcate dalle grandi banche d’affari – “pretendono” amministrazioni locali (quelle “nazionali”) da cui ottenere un “ambiente favorevole all’impresa”. Senza legacci insopportabili, diritti del lavoro, soggetti in grado di contrattare salario e normative, visioni del mondo alternative incarnate da soggetti politici “pesanti” nella vita di un paese (il posto per le “piccole sette” è così insignificante da non esser neppure preso in considerazione, non disturba).
In questo mondo, fin qui, i dirigenti sindacali come la Camusso hanno condotto i lavoratori dipendenti come mandrie al macello. Dividendo le lotte, lasciando sempre più soli quanti si ritrovavano all’improvviso senza più la fabbrica, concedendo alle imprese la libertà totale di assumere con contratti precari (predisposti sia dai governi di Prodi e D’Alema, sia dai berlusconiani), pretendendo un “monopolio della rappresentanza del lavoro” (con il Testo Unico concordato il 10 gennaio di quest’anno) che ha paragoni solo con il “patto di Palazza Vidoni”, in piena epoca fascista.
Pochi mesi dopo quel “capolavoro” di complicità con le imprese, dopo trenta o più anni di “concertazione a perdere”, gente come Camusso si ritrova presa a calci nel didietro, trattata come un “rottame sui binari”, costretta – obbligata, pena la scomparsa – a fare il gesto dell’opposizione, a minacciare quello sciopero generale che non si era voluto né fare né nominare davanti alle peggiori “riforme strutturali” seguite al commissariamento dell’Italia da parte dell’Unione Europea (novembre 2011: Berlusconi viene tirato via di peso da palazzo Chigi e viene incoronato temporaneamente Mario Monti).
Che irriconoscenti, questi padroni! In effetti nel Novecento non facevano così, conoscevano le buone maniere… Ma erano “padroni nazionali”, all’interno di uno “Stato sovrano”, obbligati a contrattare con la forza lavoro (e quindi necessitavano di un alter ego chiamato sindacato, che mantenesse le pretese dei lavoratori entro i limiti della ragionevolezza e quindi delle “compatibilità”); così come dovevano trattare con le clientele locali, la feccia criminale, gli amministratori locali mazzettari, ecc.
Questi di oggi sono “padroni apolidi”, per loro un posto vale un altro. La scelta dipende dal migliore offerente, ossia da chi – un paese intero – si vende meglio; al prezzo più basso, con le infrastrutture adatte, con le legislazioni più aggiornate. Effettivamente, a gente così, un sindacato non serve, neanche “complice”.
Cosa può fare, allora, questa preistorica Cgil concertativa e complice davanti a un cambio di regime così totale? Pochino pochino… E Camusso lo dice anche. “Proveremo a cambiare la legge di stabilità”, ovvero punterà a far togliere qualche aculeo troppo acuminato, a compensare perdite consistenti con qualche pannicello tiepido. E come farà? Con “scioperi articolati, manifestazioni, iniziative e poi lo sciopero generale”. Ma se ne parlerà al Direttivo, tra 20 giorni, quindi – se tutto va bene – sotto Natale. Quando il jobs act sarà non solo approvato definitivamente, ma praticamente già in vigore.
Inutile aspettarsi qualcosa di diverso. La strada da percorrere verso un mondo migliore è certamente lunga, ma non passa più da quelle parti.
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