Quanto? La domanda irrivente non vola da un’auto in tarda serata, ma il significato è simile. Sempre di denato contro prestazione si tratta. Anche se la professione è socialmente meno deprecata del “mestiere più antico del mondo” ed, anzi, è un obbligo per qualsiasi essere umano privo della proprietà di un mezzo di produzione.
Parliamo del livello del salario. Fin qui definito, nella tradizione italiana post-bellica, dalla contrattazione nazionale di categoria. Sia al livello minimo, per le aziende che – per dimensioni occupazionali, quelle sotto i 15 dipendenti – non fanno contrattazione di secondo livello, sia per inquadramento professionale, anzianità. ecc.
Ma cosa accade quando, come oggi, il contratto nazionale di lavoro è evitato come la peste dalla maggior parte delle categorie industriali, dalle singole aziende e persino dai sindacati complici?
O si lascia tutto alla “spontaneità del mercato”, alimentando una giungla retributiva altamente arbitraria, fino all’individualizzazione assoluta (con scivolate nel lavoro gratuito, praticamente schiavistico, come per l’Expo milanese), oppure si incarica lo Stato di fissare una soglia minima al di sotto della quale un salario diventa illegale.
Quanto?, dicevamo.
In un paese dove il lavoro dipendente conta qualcosa sul piano politico, avverrebbe una contrattazione triangolare – governo, imprese associate e sindacati – per stabilire la “soglia giusta”. Nel paese di Renzi e della Troika, invece, si procede per “decreto attuativo”. Tanto il Parlamento ha votato una delega in bianco per il Jobs Act, no?
Il “quanto” di cui si vocifera all’interno di palazzo Chigi, o del ministero del Lavoro, è una cifra bassa, di quelle che – se mettete un annuncio per una babysitter – è difficile persino che qualcuno vi risponda: tra i sei e i sette euro l’ora. Lordi, naturalmente.
Nella giungla retributiva attuale, sappiamo benissimo che c’è gente che lavora anche per meno, ed anche per molto meno. Ma la domanda da porsi non è relativa a quanti guadagnano attualmente molto meno, ma se una cifra del genere basta o no per vivere “in modo dignitoso”, come prescriverebbe la parte di Costituzione ancora in vigore dopo lo scempio renziano.
Ipotizzando una giornata lavorativa stabile 8 ore e 40 ore settimanali, 7 euro l’ora equivarrebbero a 1.200/1.300 euro mensili, prima delle tasse (Irpef nazionale, regionale, tasse comunali, ecc). Insomma, parecchio meno di 1.000 euro netti.
Se invece prendiamo a misura i sei euro l’ora, il salario mensile varrebbe poco più di 1.000 euro lordi, con tutte le riduzioni del caso come “netto in busta paga”. Se poi si considerano i part time, sempre più “involontari”, arriviamo a cifre insultanti, più che ridicole.
La cifra di 7 euro l’ora, per dire, è più bassa persino del contratto vigente nei call center, dove le “prestazioni occasionali” retribuite con voucher valgono 7,5 euro netti l’ora. Ma l’orario, naturalmente, è minore o comunque incerto.
Quale vita dignitosa si può fare con quei salari? Inutile chiederlo a Renzi, vi direbbe che così è “un paese più semplice e più giusto”.
In Germania, nei mesi scorsi, il salario minimo è stato portato a 8,5 euro l’ora (un po’ più di 1.500 euro mensili), ma le categorie storiche, come i metalmeccanici, guadagnano cifre impensabili qui da noi (mediamente intorno ai 2.500 euro netti mensili) e hanno recentemente ottenuto un aumento del 3,4%.
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walter
È l’atteso completamento del “job’s act” (sic!): per eliminare l’art. 18 hanno stabilito il costo del mancato reintegro in numero di mensilità riconosciute al lavoratore. Era quindi solo una questione di tempo il vedere il valore della mensilità crollare in verticale per soddisfare in toto le pretese di Confindustria, multinazionali e Germania (solo le ultime due membri effettivi della troika).
L’Italia non può andare in default, è a tutti gli effetti la “Cina” d’Europa….
Renzi, quando l’allievo supera il maestro (Silvio)