Il ciclone Maurizio Landini è tornato a soffiare. Il segretario generale della Fiom sembra aver rotto gli indugi e lancia una proposta di “coalizione sociale”, ovvero un soggetto politico non partitico che riunisca soprattutto i lavoratori e provi a cambiare – in tutto un altro senso rispetto a Renzi – il paese.
Accantoniamo per un attimo tutte le nostre esperienze passate (il “consorzio” poi affondato il 15 ottobre 2011), e prendiamo sul serio l’ipotesi che a sinistra del Pd possa nascere un soggetto politico – dunque anche elettorale, pur se non nell’immediato – che propone un programma radicalmente alternativo a quello del governo, oltre ovviamente a quello delle destre berlusconiane e/o leghiste. Una forza sociale e politica, da quello che leggiamo e ascoltiamo, radicalmente riformista nel senso più nobile della parola, somigliante in qualche misura più alla spagnola Podemos che non a Syriza (rassemblement politico di partiti e organizzazioni diverse), ma comunque ampiamente inserita in un contesto internazionale di insofferenza per le politiche di austerità, le “riforme strutturali”, il pareggio di bilancio, il taglio drastico ai diritti e dunque anche ai salari.
Intento legittimo, cui non poniamo obiezioni di principio, “ideologiche”. Sentiamo – come tutti – parlare di unire i lavoratori, cambiare il paese, restituire diritti, riportare i salari a un livello dignitoso, diminuire la disoccupazione o comunque dì garantire la sopravvivenza con un reddito minimo garantito, salvaguardare e rilanciare la sanità e l’istruzione, riportare l’età pensionabile a una data anagrafica che non coincida con la morte, ecc.
Tutti obiettivi che condividiamo pienamente, come sanno quanti – sempre di più e vi ringraziamo – ci leggono quotidianamente.
Poniamo dunque alcune domande senza alcun intento polemico o tantomeno “dietrologico”, convinti che un tentativo del genere – vista la grande visibilità mediatica di Landini (l’unico, al momento, a essere ospitato per un timing almeno paragonabile a quello di altri leader nominati tali dai media, come Salvini o la Meloni, per non parlare del totalitario presidente del consiglio) – possa avere qualche chance di successo. Anche elettorale, a medio termine (per elezioni politiche del 2018, diciamo). Del resto, se si dice “cambieremo il paese più di Renzi”, si esplicita l’intenzione di sostituirlo alla guida del governo. A meno che non si ritenga plausibile un ritorno al ruolo politico del Pci ante-“compromesso storico”, quando la sinistra otteneva grandi riforme grazie alla pressione della piazza pur restando sempre all’opposizione per la conventio ad excludendum. Ma sarebbe ridicolo riproporre oggi un equilibrio originale di un mondo ormai sepolto.
1) Quali sono gli avversari dichiarati contro cui la “coalizione sociale” chiama i lavoratori (e disoccupati, studenti, pensionati, esodati, ambientalisti, pacifisti, ecc)? L’asse governo-Confindustria, viene detto qua e là, tra molte altre considerazioni. Il governo è il Pd in versione Matteo Renzi, e nessun altro (non conta nulla la minoranza bersaniana o civatiana, né la pattuglia alfaniana). Va bene, certamente una “coalizione sociale” tendente a “cambiare il paese” non può avere nulla in comune con Confindustria e con il Pd, né è immaginabile un “rovesciamento” di linea strategica da parte renziana in prossimità delle elezioni, dopo quattro anni di massacro sociale. Ma siamo sicuri che siano Renzi e Confindustria i veri governanti di questo paese? Detto in altro modo: davvero si crede che basti prendere le leve del governo di questo paese per “cambiare verso” rispetto agli ultimi venti anni di smantellamento dello stato sociale, della struttura legislativa dei diritti e del potere contrattuale-salariale del mondo del lavoro?
2) Sono consapevoli, quanti si apprestano a seguire la coalizione sociale, che ogni decisione economicamente rilevante del governo italiano è presa in base a “trattati costituenti” dell’Unione Europea? Che quindi ogni legge di stabilità e ogni “riforma” deve passare il vaglio critico della Commissione, dell’Eurogruppo e di altri organismi comunitari prima ancora di venire esaminata e votata dal Parlamento italiano? Non si tratta di un dettaglio incidentale, di una questione di cui si possa dire “poi vediamo”. Di fatto, le elezioni politiche in qualunque paese europeo – tranne la Germania, entro certi limiti – sono ridotte al rango di elezioni amministrative locali. Enti locali, come dovrebbe esser noto, vincolati dal “patto di stabilità” e tenuti a rispettarlo pena il commissariamento da parte dei prefetti. Un “dettaglio”, peraltro, che dovrebbe spingere ogni formazione elettorale seriamente riformatrice a dichiarare prima di ogni consultazione elettorale di esser disposta a rischiare il commissariamento pur di rispettare il programma su cui va chiedendo il voto popolare.
3) Stanno guardando quello che accade tra la Grecia e l’Unione Europea? Si stanno rendendo conto che l’esecutivo di Syriza, che pure è partito animato dalle migliori intenzioni per metter fine al controllo della Troika e l’austerità, è al momento costretto – come minimo – a una guerriglia quotidiana per non capitombolare sotto la pressione irresistibile delle “istituzioni sovranazionali” che stanno premendo con entrambi i piedi sul tubo dell’ossigeno finanziario? Pensano che l’Italia otterrebbe un trattamento diverso e che “i mercati” accoglierebbero bene un esecutivo che voglia – per esempio – ripristinare l’art. 18, abbassare i ticket sanitari, abbassare l’età pensionabile, favorire i contratti di lavoro su base nazionale, ecc? Ricordano che nella lettera della Bce – inviata da Draghi e Trichet ai governi Berlusconi e Zapatero, nell’agosto 2011 – c’era un elenco rigidissimo di “riforme strutturali” che ogni governo, di qualsiasi schieramento politico, avrebbe dovuto rispettare? E che proprio quelle “riforme” sono state il programma di Monti, Letta e ora Renzi?
4) In definitiva, pensano ancora che l’Unione Europea sia “riformabile”? Proprio il “laboratorio greco” di questi due mesi ci dice l’esatto contrario. Anche se non bastassero le affermazioni di Jean-Claude Juncker, Wolfgang Schaeuble o Jeroen Dijsselbloem (“nessun voto popolare può rimettere in discussione i trattati sottoscritti finora”), almeno la realtà empirica di Atene riesce a far pensare in che razza di gabbia istituzionale siamo finiti? Una gabbia ispirata al principio per cui “l’economia di mercato” non deve conoscere ostacoli e limiti; né da parte degli stati nazionali, nè – tantomeno – da parte di soggetti sociali organizzati. Gli unici “aggiustamenti ammessi”, fin qui, sono di tipo adattivo-emergenziale quando sorgono problemi nuovi o imprevisti dai trattati. Per esempio il Mes (cosiddetto “fondo salva-stati), costruito secondo il principio delle società per azioni (contano di più i paesi della Ue che hanno la quota di partecipazione maggiore), oppure la delega assunta direttamente dalla Ue nella trattativa per il Ttip con gli Stati Uniti, senza consultare i songoli stati membri. Ma nessun “cambiamento dal basso” è istituzionalmente previsto. Al punto che nessun “parlamentare europeo” – in barba ai principi sacri della liberal-democrazia – è dotato del potere di presentare, anche solo pro-forma, una proposta di legge.
5) In definitiva, entro quale prospettiva pensano di collocare la proposta di “cambiare il paese in senso favorevole ai lavoratori”? Stante che: a) l’Unione Europea comanda in virtù di trattati non riformabili, b) che le amministrazioni statali sono funzionalmente subordinate alle istituzioni comunitarie, c) che i singoli progetti di riforma nazionali – sia sul fronte sociale che su quello economico, se comportano voci di spesa o limiti al libero scorazzare dei capitali – debbono essere approvati dalle “istituzioni della Troika”, pena la sospensione delle linee di credito e di garanzia monetaria da parte della Bce, oppure di sanzioni penalizzanti le esportazioni o i servizi, ecc, si ritiene di poter ottenere qualcosa lavorando nella prospettiva della “riforma dell’Unione” (per “un’altra Europa”, come diceva Syriza)?
A noi sembra impossibile. Esplicitamente vietato, a voler essere precisi. E quindi ci sembra obbligatorio perseguire gli obiettivi condivisi (diritti, salario, welfare, ecc) avendo in mente la necessità di rompere la gabbia chiamata Unione Europea.
Possiamo sbagliare, certamente. Ma se i seguaci della coalizione landiniana vogliono evitare di ritrovarsi alle prese con l’ennesima – e devastante disillusione (a quanti altri leader senza progetto di trasformazione dobbiamo ancora consegnare una speranza di cmabiamento sociale?) – secondo noi sarebbe utile che provassero a dar risposta ad alcune delle domande che qui abbiamo posto.
Anche a noi tolgono il sonno la notte. Ma non per questo rinunciamo a cercare una soluzione realistica.
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Paolo De Marco
Care compagne, Cari compagni,
Noto che per ora la « Coalizione sociale » di Landini non ha manifestato nessuno progetto di rappresentanza politica. Sembra pero volere mettere in campo due referendum, il primo sul Jobs Act e il secondo sulle riforme costituzionali che trasformano la nostra democrazia cittadina in una democrazia di azionariato (un euro, un voto, ma con rimborsi statali dei doni ai partiti …)
Mi sembra allora che i sindacati di base, come pure tutti i gruppi e movimenti realmente di sinistra, avrebbero interesse a creare un vasto movimento di massa sulla base di questi due necessari referendum.
Un tale movimento, già utile nei suoi obbiettivi iniziali, permetterebbe in oltre ricompattare la sinistra autentica.
Bisognerà dunque lanciare simultaneamente un vero dibattito sulla nazionalizzazione del debito pubblico direttamente sul mercato primario. Questo dovrà farsi tramite ad una banca pubblica capace di mettere in atto la leva finanziaria. Il dibattito dovrà anche portare sulla riduzione del tempo di lavoro nel quadro della generalizzazione del contratto a tempo indeterminato con tutte le protezioni giuridiche e con tutti i benefici sociali da proteggere con una nuova anti-dumping.
Mi permetto allora di rimandare A) al mio Appello in http://rivincitasociale.altervista.org/?doing_wp_cron=1426593824.3818359375000000000000 ; e B) al mio Uscire dall’euro non serve, serve mettere fine al regime di banca detta universale, in Download Now, http://www.la-commune-paraclet.com/livresFrame1Source1.htm#livresbookmark
In Italia, siamo ormai in un stato di emergenza, il nostro debito pubblico diventando drammaticamente insostenibile con ogni giorno che passa (vedi http://rivincitasociale.altervista.org/italia-ormai-spazzatura-la-domanda-urgente-sul-debito-e-di-chi-e-la-colpa/ ) Preme ricompattare la sinistra su alcuni punti chiave.
Vostro,
Paolo De Marco
Raffaele
perfettamente d’accordo con Paolo