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Dopo il 1 maggio No Expo. Alcuni punti di vista

Inevitabile riflettere su quanto accaduto ieri a Milano. Diamo qui alcuni primi spunti, tutti scelti tra quelli che danno elementi seri da affrontare, sottraendosi alla dicotomia che tanto piace al potere e ai suoi servi: lei è favorevole o contrario?

E’ solo l’inizio, naturalmente…

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Alcune valutazioni sulla manifestazione di Milano, fuori dalla banalità


Patrizia Buffa, Giorgio Lonardi (Ross@ Verona)

Ieri è stato un Primo maggio di lotta nel significato più autentico del termine, una giornata che ha messo insieme quelle forze sociali che rifiutano i paradigmi imposti dalla giunta Pisapia, dal sistema PD, dagli interessi delle multinazionali e dalla finanza nazionale e internazionale.

Expo è l’occasione storica della convergenza d’interessi tra una serie di attori che fanno della mercificazione, della speculazione e dello sfruttamento, la ragion d’essere dei loro profitti.  In questo contesto si è profuso ogni sforzo mediatico per presentare tale evento in una chiave profondamente ideologica e mistificatrice.  Expo si autorappresenta, infatti, come occasione irripetibile di rilancio economico del paese, come immensa opportunità di espansione occupazionale, come strumento di giustizia sociale e di redistribuzione delle risorse a livello planetario, come orizzonte di crescita senza limiti, fondata, di fatto, sull’onnicomprensività, onnipervasività e onnipotenza del mercato, ovvero sulla visione totalitaria di una società completamente mercificata e asservita alle logiche del profitto.

 

Di contro, No Expo significa:

 

·         smascheramento di questo “super-senso” costruito ad hoc

·         contrapposizione critica alla “ neolingua” creata dai media asserviti alle logiche del profitto

·         rifiuto dello sfruttamento imposto ai 18.500 giovani “volontari”, reclutati per lavorare gratuitamente al servizio degli affari e del profitto delle multinazionali

·         rifiuto dell’asservimento alimentare di miliardi di persone agli interessi di marchi, quali Coca Cola, Monsanto, Nestlè o Mc Donald’s, o agli interessi della galassia designata come green economy che, non diversamente dalle altre forme di liberismo, si basa sul profitto, semplicemente orientato verso un diverso target

·         rivolta contro la logica del brevettare e privatizzare risorse naturali a vantaggio del capitale.

 

No expo attualizza e riafferma il significato del Primo maggio con nuove forme di Resistenza contro l’imperialismo che si nutre dello sfruttamento dei popoli e delle risorse extraeuropee e assume dimensioni sempre più totalitarie e globali. Affamare i popoli in via di sviluppo, appropriarsi di risorse pubbliche, peggiorare le condizioni dei lavoratori, tutto ciò fa parte di un’unica strategia di massimizzazione del profitto che si estende dall’Africa agli USA, passando per Asia ed Europa.

In questo Primo maggio conflittuale, internazionalista e nemico del fascismo padronale, i sindacati confederali erano assenti. D’altronde la loro funzione attuale consiste nell’essere funzionali alla succitata narrazione ideologica e mistificatrice della realtà, che pretende di mostrare una dialettica delle parti di fatto ormai tramontata.  CGIL, CISL, UIL, cinghie di trasmissione del sistema, fungono oggi da strumenti di neutralizzazione delle contraddizioni, prova ne sia l’accettazione del protocollo che ha permesso di reclutare i cosiddetti “volontari” sopra citati.

La manifestazione di ieri, aldilà delle polemiche sui black bloc, rivela l’urgenza di una riappropriazione forte della coscienza di classe e di un’analisi che sia in grado di ridefinire i contorni della stessa.

Lo scollamento emerso ieri tra alcune anime della protesta, in determinate fasi della manifestazione, rende più urgente la ridefinizione di una comune strategia di lotta che sappia procedere oltre l’istantaneità e l’estemporaneità del gesto, per consolidarsi in una prassi sistematica di lunga durata. E’ questa un’urgenza che si manifesta con forza, proprio a partire dalle narrazioni arbitrarie degli eventi costruite ad hoc, il giorno dopo, dai media mainstream: si identifica la mobilitazione di massa del Primo maggio solo con le vetrine spaccate, si procede a una semplificazione  politica di comodo, si opera una traslazione dal piano politico al piano morale.

Sta a noi il compito di rovesciare soggetti e predicati, mettendo in luce ciò che i media vogliono oscurare: quarantamila persone che sfilano, dando corpo a una reale e radicale opposizione politica e sociale.

 

Ross@ Verona

Carlo Formenti (Ross@)

A Milano ieri non c’ero e per principio non mi piace disquisire su eventi ai quali non ho partecipato. Dico solo dire due cose sui dibattiti del dopo; sia quelli interni al movimento che quelli esterni (media, opinionisti, politici, forze dell’ordine, ecc.). I primi sono sempre più ripetitivi (forse perché rispecchiano lo schema ripetitivo delle manifestazioni): da un lato i violenti hanno rovinato tutto, dall’altro le anime belle fanno il gioco del potere che vuole dividerci fra buoni e cattivi. Una litania inconcludente che non si misura (quasi) mai su contenuti e progetti politici. I secondi sono il solito coro delle condanne indignate, però con due novità interessanti: 1) in primo luogo, l’insistenza sul fatto che la maggioranza dei manifestanti era pacifica e che le loro ragioni di dissenso sono rispettabili cresce; 2) i poliziotti intervistati fanno chiaramente capire che una certa quota di “lasciar fare” ai guerriglieri e la consegna di evitare attacchi indiscriminati ai cortei sono un dato acquisito. Genova ha insegnato qualcosa: il prezzo di immagine della repressione indiscriminata è troppo alto e i militanti più attivi possono essere individuati e colpiti dopo, a freddo. Ma soprattutto è come se anche le forze dell’ordine fossero entrate nella ritualità di eventi che contano soprattutto in termini di rappresentazione mediatica. Forse ciò dovrebbe indurci a meditare sull’efficacia di queste modalità e a ragionare sull’invenzione di nuove forme di lotta…

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Collettivo Militant (Noi Saremo Tutto)

Trentamila persone per una manifestazione addirittura internazionale, lanciata da mesi e contro la *grande opera* per eccellenza, segnano la cornice entro cui ogni ragionamento andrebbe riportato: oggi, se non in rare occasioni, non abbiamo la forza di costruire consenso, veicolare processi di opposizione reale, sedimentare forme di resistenza. Oggi a muoversi sono sempre e solo militanti politici, numericamente sempre meno e sempre più isolati dal corpo sociale che in qualche modo si vuole rappresentare (quello del lavoro: salariato, disoccupato, precario, non pagato, eccetera). I motivi di questo progressivo scollamento sono da ricercarsi dentro di noi, non all’esterno. Non c’è un complotto contro processi di partecipazione, se non la tipica dinamica volta a disincentivarli sempre però presente, in ogni fase della storia, quando questi assumono forma antagonistica. Questo il primo dato da cui partire, che però spiega i motivi per cui, a seconda del contesto, si dovrebbe avere l’intelligenza e la capacità di scegliere lo strumento più adatto per esprimere un messaggio politico.

Per quanto ci riguarda, siamo saliti a Milano con la consapevolezza di partecipare in forma minore, senza velleità protagonistiche, consapevoli che da tempo la città stava investendo tutta l’energia politica di cui è attualmente capace per l’occasione, fidandoci dunque dei compagni che in qualche modo ci si stavano sbattendo. Abbiamo partecipato nello spezzone che consideravamo centrale nel discorso “no-Expo”, quello del lavoro. E’ la questione lavorativa il cuore del significato dell’Expo; sono le forme che il lavoro assume nei progetti pilota quali Expo che minano alla radice le nostre condizioni di vita; sono tali sperimentazioni sociali che poi il capitale generalizza trovando sbocco alla sua necessità di profitto. E’ dunque nella questione lavorativa che si trovano le ragioni della nostra opposizione alla grande opera Expo. Tutelando noi e la metà del corteo dietro agli scontri, abbiamo – insieme agli altri compagni presenti: dai sindacati conflittuali ai collettivi che fondano il proprio agire nella contraddizione capitale-lavoro – garantito che metà corteo giungesse infine alla sua naturale conclusione, evitando la dispersione del corteo stesso.

Non eravamo materialmente presenti nel fuoco degli scontri, evitiamo dunque di parlare di dinamiche che ci vengono raccontate ma che sono frutto di legittime decisioni altrui. Soprattutto, non ci accodiamo al pensiero mainstream che da subito ha iniziato la consueta opera denigratoria. Non c’è un corteo buono e uno cattivo; non ci sono infiltrati; non c’è una parte sana e una malata. Questa cosa va detta con fermezza, in ogni dove. C’è solo tanta rabbia, che va articolata ed espressa nel migliore dei modi (e dubitiamo che questo “migliore dei modi” sia quello visto ieri), ma che in ogni caso non condanniamo perché non è certo il comportamento dei subalterni che oggi può essere messo sul banco degli imputati. Ci sono delle scelte politiche precise e una “narrazione conflittuale” che da tempo ha preso il sopravvento sulla strategia politica. Non è lo scontro e la devastazione il problema oggi. E’ come creare consenso attorno a pratiche conflittuali. E’ questo ciò che manca, ed è da qui che si deve ripartire, e da subito. Non reiterando discorsi e immaginari che vengono poi raccolti da altri, che con più sapienza e coerenza li portano alle estreme conseguenze. E’ tornando a fare politica, cioè costruendo un discorso conflittuale che vada di pari passo al sentire comune della classe. Senza accelerazioni inutili o altrettanto inutili attendismi.

Quelli che oggi inorridiscono e che magari favoleggiano degli anni Settanta dovrebbero tenere in mente che esteticamente non c’è molta differenza tra la Milano di ieri e una qualsiasi manifestazione del ’77: è il contesto che è radicalmente diverso, la cornice politica radicalmente mutata, i numeri, il consenso diffuso, una dialettica politica differente, differenti organizzazioni capace di reggere pratiche di piazza oggi completamente “anarchiche”. Un modello che oggi non può essere riproposto in sedicesimi sperando di azzeccare la combinazione giusta per caso, scontro dopo scontro, quasi che attraverso una sommatoria di pratiche esteticamente simili si possano riattivare magicamente cicli di lotte ormai trapassati. Tra una sfilata pacifica e una Mercedes in fiamme, ci sembra mancare la politica, quella mediazione capace di spostare in avanti il nostro rapporto di forze con i nemici di classe. Che utilizza il conflitto come mezzo e non come fine, trasformandolo in obiettivo politico strategico e sacrificando ad esso ogni discorso di opportunità politica. Ma questo è un discorso che va affrontato tutti insieme. Da oggi va ricostruita un’opposizione all’Expo, vanno continuati i percorsi e vanno liberati i compagni. Soprattutto quelli arrestati ieri negli scontri. E dopo anni di corruzione, scandali, miliardi sottratti alla cittadinanza, nepotismi vari, disastri economici, sociali e culturali, non ci venissero a parlare di danni d’immagine alla città. Non sarà la collera male organizzata dei subalterni a rendere le nostre ragioni meno decisive.

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Aldo Giannuli (storico)

Quanto è accaduto ieri, 1 maggio, a Milano, merita una riflessione a mente fredda, senza reazioni emotive. Il che non significa affatto giustificare neanche un po’ l’operato delle tute nere, che va condannato con nettezza e senza sconti di sorta, ma chiedersi il perché di queste forme di protesta.

Per un momento terrei separate le occasioni come quelle di ieri da episodi come la lotta alla Tav o simili: sono cose che hanno punti di contatto, ma che occorre tenere distinte.

Così come va tenuta distinta questa area “violentista” dal mondo dei centri sociali in quanto tali (che, ad esempio, ieri  in gran parte non hanno partecipato a gli scontri), anche se farebbero bene a pensare ad una dissociazione pubblica e netta rispetto a quell’altra area. E qui mi pare che Fedez abbia detto cose molto giuste.

Per cui ieri, in realtà, non c’è stata una manifestazione ma due: quella delle 500 tute nere e quella delle migliaia di partecipanti alla Mayday che sono restati perfettamente estranei agli scontri. E la stampa ha dato massimo risalto ai devastatori ignorando quasi del tutto gli altri, facendo così il gioco dei primi.

Per ora parliamo della manifestazione delle tute nere. Ormai gli incidenti, gli scontri con la polizia, le vetrine sfasciate e le auto incendiate, in coincidenza con eventi di una certa risonanza mediatica, sono un evento regolare come la pioggia in autunno ed il sole a ferragosto. Diventa necessario cercare di capire, partendo dalle motivazioni di chi mette in atto queste forme di lotta. La prima evidenza che balza agli occhi è la ricerca di visibilità: tutti eventi dove si sa di poter contare sulla presenza di telecamere e giornalisti in quantità, per cui gli incidenti occuperanno le prime pagine dei giornali e l’apertura dei telegiornali. E i titolo a tutta pagina che ingigantiscono gli scontri al di là della loro reale portata (la puntura di spillo all’ elefante del potere politico e finanziario) sono miele per le tute nere e simili, che si confermano nell’idea di un protagonismo di cui altri non sono capaci.

Queste proteste sono figlie della “società dello spettacolo” dove tutto, anche il conflitto, è “rappresentato” esattamente come a teatro. Una sorta di living theatre in piazza.

La seconda evidenza è l’inconsistenza delle motivazioni dichiarate: alzi la mano chi ha capito cosa volevano e contro chi protestavano. Ascoltate con attenzione l’intervista ad un giovanissimo manifestante data Tgcom 24: un misto di pulsioni ormonali adolescenziali ( “più che altro ero esaltato e volevo qualcosa in mano per spaccare  qualcosa.. però è stata una bella esperienza”) un malessere acuto  e, soprattutto un bisogno di autoaffermazione: “dobbiamo far sentire la nostra voce”. Peccato che, salvo un accenno genericissimo ai “politici che rubano” e alla “banca che è l’emblema della ricchezza” la “voce” non dicesse nulla. Certo l’Expo è stata la grande occasione del nostro ceto politico di ladri, ma la denuncia di queste ruberie era nell’azione del corteo my day, per le tute nere era solo un pretesto per sfasciare tutto, dando sfogo ad un nichilismo anarcoide (leggete bene: non ho scritto anarchico, ho scritto anarcoide). A loro interessa solo dire “ci siamo” ed il fine del loro movimento è puramente autoaffermativo e identitario. Il che si combina perfettamente con la ricerca di occasioni di spettacolarizzazione. Ne consegue il rifiuto di ogni proposta e della stessa dimensione politica: questo è un movimento dell’antipolitica. Ma anche antisociale: se è una protesta è giusto spaccare tutto, anche la macchina di un povero diavolo che sta ancora pagando il mutuo e non è per niente un uomo di potere, però ha il torto di “non stare con noi a protestare”. Da cui discende il carattere fondamentalista del movimento, che non cerca interlocuzioni, confronti, mediazioni ma solo l’affermazione della propria identità e la delegittimazione di ogni altra. Da questo punto di vista, questo fondamentalismo è il rovescio della medaglia di quello neo liberista, anche questo è una forma di “pensiero unico” non interessato al confronto.

Il terzo elemento è il rifiuto della modernità espresso, anche qui, nella ricerca dei simboli da colpire: non la speculazione finanziaria, ma la banca in quanto tale, non il lusso antiegualitario ma la vetrina del negozio qualsiasi perché simbolo del commercio. Ed anche l’ambientalismo professato è rifiuto di tutto quanto non sia “stato di natura”. Nei pressi della mia facoltà c’è una scritta che racchiude tutto un immaginario: “Grandi opere = Grandi Scontri”. Perché Grandi opere non possono essere che devastanti per l’ambiente, finalizzate ad una qualche tangente e dannosa per chi ci abita intorno. Che possano esserci grandi opere socialmente utili, rispettose dell’ambiente e dei diritti degli abitanti, non è cosa presa neppure in considerazione, perché è qualsiasi intervento industriale e cantieristico ad essere rifiutato.

E qui io distinguerei il caso della No Tav, che è la protesta delle popolazioni interessate contro quella determinata opera e per le modalità con cui essa è realizzata, realmente dannose per l’ambiente e per l’economia locale, e non è il rifiuto dell’opera in quanto tale.

Questa protesta assume la forma di una guerriglia cittadina di cui non deve sfuggire la raffinatezza: l’uso di una divisa (le giacche e tute nere) durante l’azione, da abbandonare subito dopo per sfuggire alla polizia, l’uso dei fumogeni per confondere la scena a facilitare la ritirata, le forme di azione coordinata dei piccoli gruppi ecc. Si direbbe che quello stesso principio di organizzazione, negato per l’azione politica e rivendicativa, sia riscoperto ed applicato nell’azione violenta e denuncia una progressione di questo tipo di movimenti in chiave militarista che non va sottovalutato. Non sono un legalitario ed un non violento ed ammetto che in determinate circostanze particolarmente gravi (cito il luglio 1960, per capirci) possa esserci un uso proporzionato della violenza, ma qui siamo di fronte ad una esaltazione della violenza in quanto tale. Essa cessa di essere mezzo per combattere qualcosa e diventa fine in sé, proprio perché non siamo in presenza del conflitto sociale, con la sua logica e le sue dinamiche, ma di fronte alla sua rappresentazione che esige il culto della violenza. Ed il culto della violenza è sempre una cosa che evoca lo squadrismo fascista, esattamente come il primitivismo politico che si coglie in questi comportamenti.

Ma da dove scaturisce questa forma di protesta così primitiva? In parte lo abbiamo già detto: la società dello spettacolo incoraggia una prassi di tipo rappresentativo, così come il fondamentalismo neo liberista produce il suo riflesso speculare che è questo. Ma c’è anche di più.

Cari amici: vi è piaciuto eliminare o ridurre ai margini i canali di trasmissione della domanda politica (partiti, sindacati ecc)? Vi è piaciuto produrre la spoliticizzazione di massa, promuovere la cultura dell’iper  individualismo? Bene: il risultato è la jacquerie urbana. Contenti?

Certo la lotta di classe è stata disarticolata, almeno da parte delle classi subalterne, perché, invece, quelle dominanti continuano a farla e pestano duro. Bene, ma la lotta di classe conteneva un principio ordinatore del conflitto, una evoluzione dalle sue forme più belluine proprio con i suoi elementi culturali ed organizzativi, in mancanza dei quali la società regredisce nello stato semi barbarico, che oggi possiamo ammirare.

Certo, comportamenti di questo tipo meritano una sanzione penale e senza sconti (dico senza sconti), ma pensare di farcela solo con la repressione è una totale stupidaggine. Significherebbe solo entrare in una fase di entropia crescente, in cui violenze come quelle di ieri diverrebero un fenomeno endemico e senza sbocco. Il problema va posto sul piano sociale e politico. Pensateci cari amici.

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Sergio Bellavita (Cgil – Il sindacato è un’altra cosa)

Corteo noexpo avanti finché si è potuto. Migliaia e migliaia di manifestanti contro la fiera dello sfruttamento. Per il resto sono sempre coloro che governano i responsabili unici del disordine. Milano non è né devastata ne’ saccheggiata. Non ci toglierete la parola per qualche vetro infranto. Voi che avete portato la guerra in decine di paesi con la scusa della pace, voi che state violentando la vita di milioni di uomini e donne. Voi proprio non raccontate la pace a noi.

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1 Commento


  • Federico

    A leggere l’intervento di Giannuli, pieno zeppo di retorica democraticista-piccolo borghese, mi sono cadute le balle…Ma Contropiano non può proprio fare a meno dal ripubblicare il grillino in questione?

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