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Campania: al via la campagna per il Reddito Garantito

Intervista ad un compagno tra i promotori dell’iniziativa che sarò lanciata venerdì 12 giugno con una Assemblea Regionale a Napoli.

In questi giorni a Napoli ed in Campania sta circolando un Appello  (https://contropiano.org/eventi/item/31183-campania-appello-per-un-assemblea-regionale-sul-reddito) che invita ad una Assemblea Regionale per avviare una campagna per il diritto al Reddito. Puoi spiegarci come è nata questa iniziativa? 

E’ nata, essenzialmente, da due esigenze. La prima, è dovuta al contesto socio-territoriale in cui viviamo. Qui non voglio appesantire la discussione con dati e statistiche, ma è universalmente riconosciuto che la lunga  crisi che viviamo ha, tra l’ altro, approfondito il divario tra il Nord e il Sud, siamo, come campani e meridionali, in termini di PIL e tasso di disoccupazione la parte ‘’grecizzata’’ del Paese.
La seconda esigenza è in buona misura collegata alla prima e deriva dalla profonda insoddisfazione con cui si porta avanti la discussione sul reddito a livello nazionale. In altri termini, pensiamo  che non  possa essere prevalentemente né una sorta di ‘’campagna d’ opinione’’ – come nel caso del reddito di dignità di Libera, di cui, però, riteniamo interessanti vari aspetti di merito – né che possa diventare una sorta di bandiera identitaria come nel caso dei Cinque Stelle. Pertanto, riteniamo che portare la battaglia per il reddito minimo garantito a livello territoriale significhi cercare di rispondere ad entrambe le esigenze sopracitate in modo da meglio legarne contenuto e metodo alla materialità delle condizioni di vita e da svilupparne un più concreto aspetto vertenziale. 

Nel vostro Appello indicate, nell’ambito di una mobilitazione articolata e generalizzata, lo strumento della Proposta di Legge Regionale di Iniziativa Popolare come viatico per affermare questo sacrosanto diritto. Puoi illustrarci questo tipo di scelta? 

E’ chiaro che, per noi, la Proposta di Legge significa la scelta di uno strumento unificante che, nei fatti, proprio per le affermazioni che facevamo in precedenza, è una sorta di Piattaforma di Lotta che abbia anche lo scopo di congiungere le battaglie urbane dell’ area metropolitana napoletana con le nostre zone interne. Sotto il profilo meramente formale, facciamo riferimento all’ articolo 12 dello Statuto della Regione Campania che prevede, all’ interno degli strumenti partecipativi, la possibilità di raccogliere 10.000 firme e depositare presso il Consiglio Regionale una proposta di legge accompagnata da una relazione descrittiva. La nostra scelta è nata nel marzo scorso e si è sviluppata attraverso varie riunioni da aprile a giungo presso lo Zero 81, uno degli spazi sociali occupati della nostra città. Sin dal primo momento, abbiamo chiarito che la proposta, pur nascendo in periodo elettorale, si sarebbe sviluppata ad urne chiuse perché non erano esigenze propagandistiche quelle che ci muovevano. Pensiamo che la ‘’mobilitazione articolata e generalizzata’’ cui fai riferimento, riprendendo passaggi dell’ Appello che indice l’ Assemblea Regionale sul reddito minimo garantito di venerdì prossimo, seppur debba svilupparsi innanzitutto verso la controparte regionale debba rivolgersi anche verso una serie di Comuni che, come prevede il citato articolo dello Statuto Regionale, possono approvare nei propri Consigli la proposta di legge d’ iniziativa popolare e inviarla anch’ essi al Consiglio Regionale per la discussione ed approvazione. 

In Campania, al tempo dell’Amministrazione Bassolino, fu sperimentata una forma di Reddito di Cittadinanza. Quali furono i limiti politici e materiali di quel provvedimento e quali sono le differenze di impostazione con i contenuti programmatici della mobilitazione che state promuovendo? 

Fai riferimento alla Legge Regionale n. 2 del 2004 verso cui ci poniamo in sostanziale discontinuità seppur non neghiamo che, in quel periodo, s’era partiti con proposte più interessanti successivamente ‘’sbiadite’’ nel dibattito consiliare. Tre sono le differenze d’ impostazione. La prima è che la nostra proposta non è per avviare nuove ‘’sperimentazioni’’ ma è per una misura stabile, la seconda è che riguarda innanzitutto il reddito individuale più che quello familiare, la terza è che alla fin fine la citata legge regionale aveva un’ impostazione troppo interna alle sole politiche sociali mirando più alla lotta contro la povertà assoluta che a quella relativa. Inoltre ci sono varie differenze di merito come, ad es., sul requisito della residenza nel territorio regionale che nella legge del 2004 era di ben cinque anni e, nella nostra proposta è di due anni o il sistema di governance dove noi diamo un ruolo maggiore anche alla Città Metropolitana e a ciò che resta delle Province.

Proviamo ad approfondire brevemente almeno una delle differenze d’ impostazione che, in realtà, riguardano anche buona parte delle modalità di prestazioni di welfare nell’ era liberista e del pareggio di bilancio. Ci riferiamo alla differenza tra un’ impostazione prevalentemente basata sul reddito individuale invece di quello familiare, essa non è per nulla ‘’ideologica’’ ma dipende dalla volontà di incidere o meno nella lotta alla povertà e alle disuguaglianze. Infatti è a livello del reddito individuale che povertà e diseguaglianze sono maggiori e si cerca di coprirne, almeno una parte, col ruolo di supplenza che  viene imposto alla famiglia nelle politiche sociali e occupazionali. Ciò è confermato dai dati ISTAT, nel Rapporto 2014 si evidenzia che i dati 2013 sulla povertà relativa a livello individuale hanno avuto un incremento maggiore di quelli riguardanti lo stesso tipo di povertà a livello familiare rispetto al 2007. Pertanto, nell’ anno precedente l’ avvio della crisi del 2008 la povertà relativa degli individui era del 12,8% passato al 16,6% nel 2013, più basse le percentuali della povertà relativa a livello familiare che nel 2007 era dell’ 11,1% e nel 2013 del 12,6%.  Insomma pur di evitare di confrontarsi con la povertà individuale, per ragioni economiche si strumentalizzano anche i valori familiari, soprattutto della tradizione cattolica, condivisibili o meno che essi siano. 

In che rapporto si pone la vostra proposta con i contenuti del decreto attuativo, del governo Renzi, sugli ammortizzatori sociali previsti nel Jobs Act? 

Col jobs act si rafforzano i criteri assicurativi col relativo sistema contributivo, quindi, chi più dà più ha. Ciò, aldilà delle chiacchiere propagandistiche di Renzi e Poletti sull’ allargamento della platea dei beneficiari delle misure di sostegno, va in direzione esattamente opposta a quella di uno strumento universale, la nostra proposta, invece, si fonda, da un lato, sul riordino della legislazione regionale in materia di politiche sociali ed occupazione, dall’ altro sui Fondi Europei per le misure relative all’ inserimento nel mercato del lavoro e sul taglio consistente di consulenze ed incarichi dirigenziali esterni alla dotazione organica regionale. In realtà, la nostra proposta è tendenzialmente universale e si basa sia su una componente monetaria che non monetaria di Reddito Minimo Garantito. Ciò per non toccare il punto che il d-lgs n. 22 del 2015 s’ inserisce nella solita politica economica liberista mirante a ridurre la spesa per gli ammortizzatori. 

Attualmente, come accennavi nella prima risposta, il Movimento Cinque Stelle ha fatto della parola d’ordine del Reddito di Cittadinanza un suo punto forte di propaganda. Che assonanze ci sono con la proposta dei Penta/stellati e quali sono le critiche che avanzate? 

Le assonanze, rispetto al ddl depositato al Senato, con prima firmataria la Senatrice Catalfo, sono poche anche per motivi oggettivi, perché un conto è l’ ambito nazionale, altro è il livello regionale, in quest’ ultimo caso, non conosciamo ancora una proposta organica dei Cinque Stelle se non poche battute fatte dalla loro candidata Presidente nella recente campagna elettorale. Ci auguriamo che sul livello regionale non vengano riproposte posizioni che creano equivoci sul concetto di cittadinanza che viene ristretto, nei fatti,  ai cittadini  italiani e comunitari perché non soltanto sarebbe contrario ai valori della sinistra e alla tradizione del Movimento napoletano ma farebbe venir meno una delle finalità del Reddito Minimo Garantito che è sempre stata anche quella di far emergere il lavoro nero evitando che gli extracomunitari vengano utilizzati in funzione ricattatoria dal padronato contro i lavoratori del nostro Paese. A livello regionale, condividiamo il fatto che una parte del finanziamento del R.M.G. debba venire dalla lotta agli sprechi e alle clientele, tuttavia quest’ aspetto non si può trasformare in una sorta di accettazione della politica liberista della spending review che già tanti danni ha prodotto sia a livello sociale che istituzionale, si pensi, ad esempio, che dello svuotamento-soppressione delle Province, alla fine, i veri tagli non sono stati ai ‘’costi della politica’’ ma ai servizi forniti da questi Enti con 20.000 lavoratori in mobilità coatta senza contare il progressivo smantellamento delle Società Partecipate ex-provinciali. Naturalmente saremo disponibili al confronto, tuttavia non possiamo permetterci scorciatoie, né deleghe, da settembre in poi dobbiamo fare banchetti e  iniziative di sostegno alla raccolta firme, soltanto una forte iniziativa di mobilitazione sociale garantirà la nostra autonomia ed indipendenza.

Naturalmente la campagna che vi apprestate a promuovere, oltre alla raccolta di firme, dovrà fondarsi, se vuole per davvero raggiungere gli obiettivi che si è data, su una diffusa mobilitazione sociale nei diversi territori della Campania. Ritieni che questa vertenza può essere un tassello, a tratti anche politicamente ricompositivo, di quella confederalità sociale da tempo evocata sia dal sindacalismo conflittuale ma anche dai movimenti sociali?

La risposta può essere positiva, tuttavia non si può nascondere che si tratta di un banco di prova impegnativo che va affrontato con molta maturità evitando gelosie e settarismi, adottando l’ ottica del work in progress, aggiustando via facendo i limiti che possano essere individuati e costruendo un rapporto paritario tra i vari Comitati, Associazioni ed il variegato mondo dell’attivismo politico, sociale e sindacale.
Uno sviluppo positivo dell’ esperienza in corso significa che il tipo d’aggregazione della Confederalità Sociale nasce prevalentemente dal basso e dai territori con un percorso che è, in buona parte, esattamente inverso ad altri tipi d’aggregazione che si stanno promuovendo nel Paese dove si vuole partire da Roma e, poi, a cascata sui territori esponendosi, così, ad oggettivi rischi di burocratismi.

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