Il programma “dovete morire” è in marcia. Ogni giorno se ne hanno nuove prove.
Abbiamo chiamato, così, ormai da qualche anno, l’insieme di politiche di austerità imposte dalla Troika e applicate con entusiasmo dai governi nazionali. Compreso quello italiano.
La prova di oggi è un rapporto del Censis a proposito di politiche socio-sanitarie e socio-assistenziali in Italia.
“Il Fondo per le politiche sociali, istituito nel 1997 per trasferire risorse aggiuntive agli enti locali e garantire l’offerta di servizi per anziani, disabili, minori, famiglie in difficoltà, testimonia il progressivo ridimensionamento dell’impegno pubblico sul fronte delle politiche socio-sanitarie e socio-assistenziali. Le risorse assegnate al Fondo sono passate da 1,6 miliardi di euro nel 2007 a 435,3 milioni nel 2010, per poi scendere a soli 43,7 milioni nel 2012 e infine recuperare in parte negli ultimi due anni fino ai 297,4 milioni del 2014. La riduzione è stata dell’81% nel periodo 2007-2014, gli anni della crisi. Anche il Fondo per la non autosufficienza è passato dai 400 milioni di euro del 2010 al totale annullamento nel 2012, per poi risalire a 350 milioni nell’ultimo anno”.
Non ci sono giudizi, soltanto dati. E una riduzione dell’81% – che era ad un certo punto arrivata al 97% – è più indicativa di mille discorsi: lo Stato non spende più per mantenere in vita persone, cittadini, esseri umani dotati di pensiero e sentimenti, non più in grado di riuscirci da soli.
“Secondo gli ultimi dati disponibili, la spesa sociale dei Comuni supera i 7 miliardi di euro l’anno, pari a 115,7 euro per abitante. Complessivamente, la spesa è destinata per il 38,9% a garantire interventi e servizi, per il 34,4% al funzionamento delle strutture, per il 26,7% ai trasferimenti in denaro. Le categorie che assorbono la quota maggiore di spesa sono le famiglie e i minori (40%), i disabili (23,2%), gli anziani (19,8%), i poveri e i senza fissa dimora (7,9%)”
Scendendo nei dettagli, si nota che questa politica valida per tutto il paese presenta differenze sostanziali tra Nord e Sud, come per ogni altra statistica.”Si passa dai 282,5 euro per abitante nella Provincia autonoma di Trento ai 25,6 euro della Calabria. Mentre gran parte delle regioni del Centro-Nord si colloca al di sopra della media nazionale, il Sud presenta una spesa media pro-capite che ammonta a meno di un terzo (50,3 euro) di quella del Nord-Est (159,4 euro)”.
Un ideologo del potere potrebbe sostenere che ciòavviene perché al Sud c’è una cultura e una prassi più “familistica”, per cui molte delle incombenze di assistenza vengono risolte all’interno delle relazioni parentali. Il motivo vero è invece assai più semplice e radicale: gli enti lcali del Sud hanno poche “risorse proprie” e i loro bilanci hanno un forte bisogno di essere integrati da trasferimenti centrali. Come avviene in ogni Stato, insomma, la tassazione serve anche a compensare le sacche territoriali meno fortunate.
Se invece, come aviene da anni, lo Stato centrale riduce i trasferimenti agli enti locali – obbedendo a diktat sovranazionali che impongono di tagliare tutta la spesa pubblica “improduttiva” – allora per i territori del Mezzogiorno non c’è più speranza. Quel poco che hanno non basterà mai a coprire le necessità della spesa per i non autosufficienti.
“In compenso”, quei pochi finanziamenti che lo Stato centrale ancora concede per questa finalità sociale sono ormai appannaggio delle “coopertative del terzo settore”. Definizione molto formale – fa riferimento soltanto alla forma societaria – sotto cui si può trovare di tutto; dal gruppo di persone fortemente motivate ai tentacoli stile Mafia Capitale.
E si capisce bene il ruolo svolto in sostituzione del ruolo pubblico proprio in quei settori dove il “privato” classico non investirebbe comunque mai. Da oltre venti anni, totto l’ambito socio-sanitario e l’assistenza alle persone è stato progressivamente “esternalizzato”. E in questo processo è cresciuto il peso delle società cooperative che riescono ad operare solo grazie a salari di merda, volontariato e bassi o nulli investimenti.
Basti pensare che le “cooperative sociali” costituiscono soltanto il 3,7% sul totale delle istituzioni definite no profit. Ma nel comparto sanitario e dell’assistenza sociale rappresentano il 10,9% dei soggetti attivi nella sanità e al 17,8% nei servizi sociali. E man mano che il servizio pubblico viene smantellato il loro numero cresce, come anche il numero dei dipendenti, attualmente arrivati a 225.000 unità.
Basta ricordare che si tratta di un settore che dipende dai finanziamenti pubblici. Quando si taglia, volano via pezzi. E allora c’è più gente che perde il lavoro e meno persone che ricevono assistenza. “Dovete morire” su due fronti, insomma.
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