Sono giorni che valgono anni, questi che abbiamo vissuto tra il referendum del 5 luglio in Grecia e la resa senza condizioni di otto giorni dopo. Vecchie certezze si sono rivelate banali luoghi comuni frutti dell’abitudine, o della scarsità di pensiero; e fresche illusioni, come quelle del nuovo “riformismo di necessità”, quello sbocciato parzialmente fuori dei tradizionali recinti delle ideologie riformiste novecentesche (Syriza, Podemos, Movimento 5 Stelle, ecc), si sono trovate davanti i blindati d’acciaio dell’ordoliberismo inchiavardato nei trattati dell’Unione Europea.
Giorni che hanno distrutto insomma quell’idea all’apparenza tanto semplice: “facciamo un’altra Europa”, più solidale, più attenta ai bisogni delle popolazioni”, insomma più “di sinistra”‘, riformista senza eccessi. L’alternativa era bocciata prima di cominciare a ragionare: “nazionalismo di ritorno”, nostalgici della lira e via demonizzando, abbacinati dal protagonismo mediatico dei Salvini di turno (specchio preconfezionato dell’altro Matteo, provvisoriamente a palazzo Chigi). Senza dunque neppure ascoltare chi – come l’area politica che questo giornale cerca di rappresentare – vedeva e vede nella rottura dell’Unione Europea (moneta unica compresa) il passaggio indispensabile per ipotizzare e strutturare un’altra comunità internazionale, fondata su princìpi di solidarietà sociale e complementarietà produttiva, sull’esempio dell’Alba latino-americana, e che per analogia abbiamo chiamato Alba Euromediterranea.
Una proposta politica che nella residuale “sinistra radicale”, e anche in settori di movimento, è stata per qualche tempo snobbata con sufficienza, come se fosse una ricetta fast food, una “cosetta” da provare a fare a bocce ferme, nell’attuale contesto.
I giorni di luglio stanno cambiando rapidamente la situazione. Una qualsiasi politica attenta al sociale si è dimostrata impossibile nell’attuale quadro istituzionale dell’Unione Europea. Il governo Tsipras-2 sarà obbligato a cancellare anche le poche “misure umanitarie” che il governo Tsipras-1 era riuscita con tanti sforzi a varare. Così vuole la Troika, così verrà fatto.
Nella ex “sinistra dei contenitori”, quella che ad ogni stagione reagisce all’ultima sconfitta ripetendo le mosse che hanno prodotto la precedente, nell’illusione che aggregare pezzi sfranti di ceto politico sconfitto sia una soluzione furba per restare o tornare a galla, fino a due giorni fa l’idea dominante era sempre la stessa: alla prepotenza dell'”Europa tedesca” bisogna proporre “più Europa” e naturalmente “un’altra Europa”.
Ora Stefano Fassina si accorge il ragionamento non tiene più. Che l’euro è una gabbia entro la quale ogni idea moderatamente riformista e di “compassione sociale” non ha spazio per realizzarsi. Più precisamente: “nella gabbia liberista dell’euro, la sinistra, intesa come forza impegnata per la dignità e la soggettività politica del lavoro e per la cittadinanza sociale come veicolo di democrazia effettiva, perde senso e funzione storica. È morta“.
Non solo: “Tale quadro è reversibile? […] È difficile rispondere sì“. Quindi anche lui scopre che l’Unione Europea è irriformabile. Meglio tardi che mai, ma…
E’ lo stesso Stefano Fassina che sedeva come sottosegretario all’economia nel governo Monti, il governo dell’“invasione” operata dalla Troika, quello della riforma Fornero e infiniti altri provvedimenti di taglio alla spesa sociale. Il salto in avanti sembra enorme. E in effetti lo è se si misurano le distanze in termini di politichetta italiana, ovvero come distanza dal Pd renziano. Se fossimo inesperti e inclini alle illusioni, potremmo dire “benvenuto” nell’opposizione.
Ma abbiamo imparato in questi anni che le “svolte” politiche nella sinistra riformista sono troppo numerose e frettolose, in genere basate su riflessioni tattiche, senza respiro di lungo periodo. E quindi ci verrebbe da aggiungere: “ma sei proprio sicuro? ma proprio sicuro sicuro?”
L’argomentare di Fassina è tutto concentrato sulla moneta unica, non prende in considerazione l’insieme organico dei trattati, che fissano gli architravi della “gabbia” in maniera molto solida; o, se lo fa, ne coglie solo la natura di limite per le “scelte della politica” (“Siamo stati ingenui o, peggio, inconsapevoli degli effetti di marginalizzazione della politica implicati nei Trattati“). E il suo orizzonte futuro non va molto oltre il semplice ritorno – sofferto – allo “stato nazione”. Proprio il terreno peggiore per misurarsi con il “dopo euro”, gia infestato da fascisti padani e non…
E’ comunque la prima presa d’atto che la strada “riformista” seguita fin qui – che lui definisce della “continuità” con l’assetto della Ue – è definitivamente interrotta, bombardata, impraticabile. Qualcosa di spiazzante per i suoi compagni di strada ancora fermi al “prima del 12 luglio”; sicuramente qualcosa di sconvolgente per il giornale su cui è apparsa la sua riflessione (il manifesto “nuova gestione”); sicuramente qualcosa che lo esporrà ancor di più a lazzi e frizzi renziani.
Ma non qualcosa che sia all’altezza del problema: “La strada della discontinuità può essere l’unica per tentare di costruire una forza politica in grado di rianimare la Costituzione della «Repubblica democratica, fondata sul lavoro». La sconfitta subita dal Governo Tsipras, e da noi a suo sostegno, dovrebbe cancellare l’illusione dell’inversione di rotta lungo la strada della continuità. Il tenace attaccamento all’illusione dovrebbe almeno sconsigliare avventure politiche oltre il Pd“.
La “discontinuità” e la “gabbia dell’euro” possono sembrare grandi svolte solo se finora non ci si era mai posti il problema. Ma appunto: è difficile costruire seri movimenti di rottura dell’esistente per chi, come Fassina (e ancora più i suoi esitanti compagni di strada), si rende conto di come l’esistente è fatto solo quando ci sbatte contro in prima persona.
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Non c’è sinistra nella gabbia dell’euro
Sulla bruciante vicenda greca, partiamo dai contenuti dello «Statement» dell’Eurosummit del 12 luglio scorso, prima di fare valutazioni politiche. È impossibile nasconderne l’insostenibilità economica e di finanza pubblica. Le misure imposte sono brutalmente recessive, oltre che regressive sul piano sociale, nonostante gli aggiustamenti conquistati dalla delegazione greca a Bruxelles. Gli interventi di compensazione macroeconomica sostanzialmente inesistenti. I finanziamenti previsti per il salvataggio sono dedicati alla ricapitalizzazione delle banche e al pagamento dei debiti verso Bce, Fmi e creditori privati.
Nulla va alla spesa in conto capitale. Mentre la credibilità della Commissione europea a aiutare il governo greco a mobilitare in 3–5 anni fino a 35 miliardi di euro per investimenti va pesata in relazione all’incapacità di reperire le risorse minime per il Piano Junker. Infine, la promessa di valutare la sostenibilità del debito pubblico apre una prospettiva comunque priva di ricadute reali fino al 2023, termine del grace period concesso dagli Stati europei sui rispettivi crediti.
Quali lezioni trarre dalla parabola greca? Alexis Tsipras, Syriza e il popolo greco hanno il merito storico, innegabile, di aver strappato il velo della retorica europeista e della oggettività tecnica steso a coprire le dinamiche nell’eurozona. Ora si vede la politica di potenza e il conflitto sociale tra aristocrazia finanziaria e classi medie: la Germania, incapace di egemonia, domina l’eurozona e porta avanti un ordine economico funzionale al suo interesse nazionale e agli interessi della grande finanza.
In tale contesto, i punti da affrontare sono due. Il primo: il mercantilismo liberista dettato e imperniato su Berlino è insostenibile. La svalutazione del lavoro, in alternativa alla svalutazione della moneta nazionale, come unica strada per aggiustamenti “reali” determina cronica insufficienza di domanda aggregata, elevata e persistente disoccupazione, deflazione e rigonfiamento dei debiti pubblici. In tale quadro, l’euro esige, oltre i confini dello Stato-nazione dominante, lo svuotamento della democrazia e la politica come amministrazione per conto terzi e intrattenimento.
Tale quadro è reversibile? Ecco il secondo punto. È difficile rispondere sì. Purtroppo, le necessarie correzioni di rotta per rendere sostenibile l’euro appaiono impraticabili per ragioni culturali, storiche e politiche. Le opinioni pubbliche nazionali hanno posizioni contrapposte, allontanate ancor di più dall’agenda imposta dopo il 2008. Le posizioni prevalenti nel popolo tedesco sono un fatto. In Germania, come ovunque, i principi democratici rilevano nell’unica dimensione politica rilevante: lo Stato nazione.
Dai primi due punti di analisi deriva una agra verità: nella gabbia liberista dell’euro, la sinistra, intesa come forza impegnata per la dignità e la soggettività politica del lavoro e per la cittadinanza sociale come veicolo di democrazia effettiva, perde senso e funzione storica. È morta. La marginalità o la connivenza dei partiti della famiglia socialista europea sono manifeste. Continuare a invocare gli «Stati Uniti d’Europa» o la «riscrittura pro-labour» dei Trattati è un esercizio astratto, vettore di autoreferenzialità e di allontanamento dal popolo.
Che fare? Siamo a un bivio storico. Da una parte, la strada della continuità vincolata all’euro, ossia della rassegnazione alla fine delle democrazia delle classi medie oppure dell’illusione di «svoltebuone»: un equilibrio precario di sottooccupazione e di rabbia sociale, minacciato da rischi elevatissimi di rottura. Dall’altra, il superamento concordato, senza atti unilaterali, della moneta unica e del connesso assetto istituzionale, innanzitutto per il recupero dell’accountability democratica della politica monetaria: un percorso impervio, incerto, dalle conseguenze dolorose almeno nel periodo iniziale.
La scelta è drammatica. Fare l’euro è stato un errore di prospettiva politica. Siamo stati ingenui o, peggio, inconsapevoli degli effetti di marginalizzazione della politica implicati nei Trattati. Oggi la strada della continuità è opzione esplicita dei Partiti della Nazione o delle grandi coalizioni a guida conservatrice. È anche percorsa involontariamente e contraddittoriamente da chi in Italia si mobilita contro il Jobs Act ma giustifica, in nome del «no Grexit», l’attuazione dell’Agenda Monti in versione esiziale a Atene. La strada della discontinuità può essere l’unica per tentare di costruire una forza politica in grado di rianimare la Costituzione della «Repubblica democratica, fondata sul lavoro». La sconfitta subita dal Governo Tsipras, e da noi a suo sostegno, dovrebbe cancellare l’illusione dell’inversione di rotta lungo la strada della continuità. Il tenace attaccamento all’illusione dovrebbe almeno sconsigliare avventure politiche oltre il Pd.
Stefano Fassina
pubblicato su Il Manifesto del 17 luglio 2015
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Enzo
Perfetto; la sx radical-riformista ha indubitabilemnte fallito. ora tocca a voi.! attendo con trepidazione la vostra analisi e la conseguente proposta…vediamo se avete tutto il coraggio politico .che la fase richiede.