Quando abbiamo preso a chiamare “complici” i sindacati ufficiali – insomma: Cgil, Cisl e Uil – in molti, anche nella cosiddetta sinistra radicale, hanno arricciato il naso. Ok, ci veniva detto, va bene la critica di una linea decisamente arrendevole, ma da qui a chiamarli di fatto “servi del padrone” ce ne corre.
Eppure la definizione di “complici” era stata proposta da Maurizio Sacconi, il più feroce nemico del sindacalismo pro-lavoratori che si sia mai visto. E lui, che veniva dalla Cgil oltre che dal Psi craxiano, sapeva indubbiamente bene di cosa stava parlando…
Poi la scomparsa improvvisa di Raffaele Bonanni, da segretario generale della Cisl a “invisibile”, ha cominciato a far uscir fuori alcuni comportamenti decisamente incompatibili col ruolo di “difensore dei diritti dei lavoratori”. A cominciare dagli stipendi, autoattribuiti nella più totale segretezza e a livelli da far invidia al presidente degli Stati Uniti.
La cifra esatta dello stipendio di Bonanni è stata a lungo un mistero della fede. Il Fatto Quotidiano, qualche anno fa, l’aveva quantificato in 336.000 euro annui (Obama prende 250.000 dollari, poso più di 200.000 euro…). L’unica cosa certa è che il maxiaumento retributivo per il segretario generale, deciso poco dopo la sua ascesa a quella poltrona, è arrivato giusto in tempo per arricchire il suo monte contributivo in vista della pensione, per cui fce domanda nel 2011.
A proposito di tempismo, giova ricordare che quella domanda venne fatta mentre già si preparava la sostituzione di Berlusconi con Monti, e quindi quella “riforma delle pensioni” ordinata dalla lettera della Bce (agosto 2011) e che avrebbe poi preso il nome dalla signora Fornero.
Voci di corridoio riferiscono che al dunque, la sua pratica sia stata espletata in soli tre giorni, giusto qualche mese in meno di quel che è necessario per un qualsiasi lavoratore. Dal 2012 al momento delle dimissioni – nell’autunno del 2014 – riuscì a sommare il ragguardevole stipendio con un assegno mensile netto di 5.391,50 euro mensili (lui dice 5.122, ma insomma siamo lì), ovvero altri 65.000 annui.
Dentro la Cisl, allora, si svolse una vera e propria faida a colpi di dossier e lettere di denuncia, anonime o palesi. E in questo modo venne fuori che il “vizietto” di darsi compensi faraonici era diventato un sport alquanto diffuso.
La sostituta di Bonanni, Annamaria Furlan, nuova segretaria generale nazionale della Cisl, si era impegnata a riportare la situazione a livelli accettabili. E quindi ha ridotto, per esempio, il suo stesso stipendio portandolo dai 336.000 euro del predecessore a “soli” 156.627,52 euro annui- Che comunque, rispetto ai compensi previsti del 2008 (anno di esplosione della crisi generale e di inizio delle politiche di “austerità” prescritte dalla Troika), segna un aumento del 58,11% ai 76.201,60 euro annui (più un 30% di “indennità”); totale 99.000 euro.
Ma il “vizietto” di attribuirsi stipendi faraonici è decisamente più diffuso e coinvolge livelli molto meno importanti della segreteria generale.
Pochi giorni fa, Fausto Scandola, iscritto dal ’68 alla Cisl (il ’68 non è stato uguale per tutti, diciamolo, e comunque allora anche una parte della Cisl divenne improvvisamente conflittuale), naturalmente oggi pensionato in quel di Verona, ha preso carta e penna per fare nomi e cifre.
In cima a tutto la domanda politica inaggirabile: “I nostri Rappresentanti/Dirigenti ai massimi livelli Nazionali della nostra Cisl sono ancora, si possono ancora considerare Rappresentanti Sindacali dei Soci finanziatori, lavoratori dipendenti e pensionati? I loro comportamenti, lo svolgere dei loro ruoli, come gestiscono il potere, si possono ancora considerare da esempio e guida della nostra associazione che punta a curare gli interessi dei lavoratori dipendenti e pensionati soci finanziatori? O rappresentano caratteristiche più affini a chi gestisce una sua proprietà? Come poterli definire, da come esercitano il rispetto delle regole Confederali nel costruirsi i propri compensi, ricavati dal finanziamento volontario dei soci iscritti?”.
Per stare sul sicuro, Scandola denuncia casi che conosce direttamente e di cui presumibilmente, ha in mano le carte per provare ciò che dice. Per esempio Antonino Sorgi, presidente nazionale dell’Inas Cisl – il patronato, di fatto – che nel 2014 si sarebbe messo in tasca 77.969,71 euro di pensione, 100.123,00 euro di “compensi” da parte dell’istituto che dirige e altri 77.957,00 euro grazie al ruolo dirigente nell’Inas immobiliare. Il totale (256.049,71 euro), anche qui, supera seppur di poco lo stipendio di Obama. Ma volete mettere quant’è più difficile e faticoso dirigere un patronato rispetto a guidare gli Stati Uniti d’America?
Meglio di lui avrebbe fatto però l’ex presidente del Caf della Cisl, Valeriano Canepari, che l’anno prima sarebbe riuscito a sommare 97.170,00 euro di pensione e 192.071,00 euro di compensi da parte dell’Usr Cisl Emilia Romagna – l’Unione Sindacale Regionale – per un totale di 289.241,00 euro.
I nomi denunciati dall’orripilato Scandola sono molti di più, spesso noti soltanto agli addetti ai lavori. Ma appunto il loro numero e il loro “grado”, alla testa di funzioni minori del sindacato nazionale, fa a cazzotti con l’entità delle cifre percepite.
Non che la Cgil stia messa molto meglio, anche se le cifre sono decisamente meno rilevanti. Guglielmo Epifani, per esempio, è titolare di una pensione mensile netta di appena 3.400 euro, comunque frutto di un “ritocco” stipendiale (appena 800 euro) deciso alla vigilia della presentazione della domanda di pensione.
Gli scandali, in Corso Italia, sono gestiti con metodologie antiche, miranti a salvaguardare il buon nome dell’organizzazione anche a costo di far scomparire dalla circolazione quelli presi con le mani nel lardo. Lì dentro, per esempio, ancora si parla a mezza bocca di quel membro della segreteria nazionale improvvisamente dimesso subito dopo aver gestito i lavori di ristrutturazione della sede centrale.
Cose minori, come si vede, sul piano finanziario. Ma nello stesso milieu “culturale”. Perché – bisogna sempre ricordare – quegli stipendi vengono pagati con i soldi degli iscritti, spesso semplici lavoratori da 1.000 o meno euro al mese; e i cui diritti – contrattuali o legali – vengono svenduti con regolare costanza da dirigenti che “grattano” in cassa.
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