La ministra di Confindustria si è dimessa. Ci aveva anche provato, a resistere. Ma il gelo intorno è stato totale. A cominciare da chi l’aveva messa a capo dello “sviluppo economico” (sorvolando sui risultati in termini di crescita).
È stato chiaro a tutti, immediatamente, che o lei si dimetteva o il governo rischia la pelle. Lo si legge quasi esplicitamente su tutti i giornali governativi, assolutamente compatti sulla linea “una decisione che non aveva alternative” (titolo del Corriere della sera).
Il più esplicito è stato il retroscenista ufficiale della ex via Solferino, Francesco Verderami:
“La Guidi doveva dimettersi. E prima del tg delle venti. Ogni giorno in più al dicastero sarebbero valsi almeno un paio di punti percentuali di cittadini pronti a far la fila alle urne per il referendum contro le trivelle (e contro Renzi). La Guidi doveva lasciare. E in prime-time televisivo.”
La testa degli italiani doveva essere occupata dal gesto delle dimissioni, più che dalle cause per cui venivano date. Il danno era ormai fatto, si poteva cercare solo di limitarne la portata il più possibile, cercando di dare un’immagine immediata di “rigore”. Anche per salvare l’altra ministra coinvolta direttamente dalla Guidi nell’affaire, Maria Elena Boschi, che in quanto addetta ai Rapporti con il Parlamento, ha il compito di vagliare e selezionare la marea di emendamenti che si scaricano su ogni legge di iniziativa governativa. La ragazza, così come aveva fatto nel caso del decreto “salva banche” (a favore di Banca Etruria, di cui il padre era vicepresidente e lei azionista), aveva già provato a sfilarsi dalla collega giurando di non sapere nulla, neanche “che la Guidi avesse un fidanzato”.
Ma più ancora della sua salvezza, Renzi aveva a che fare con un problema assai più rilevante:
“non c’è dubbio che l’intreccio accusatorio in cui viene chiamato in causa l’Eni, dentro un contesto che richiama a un comitato d’affari prossimo al governo e che evoca il conflitto di interessi a Palazzo Chigi, contribuirà comunque ad alzare il quorum nelle urne il 17 aprile”
Già. Un referendum tranquillamente avviato verso il fallimento, per macanza di quorum, improvvisamente diventa un appuntamento rischioso. La telefonata tra la Guidi e il convivente rivela una normalità impossibile da negare: si fanno leggi per favorire gli affari privati di compagnie multinazionali, società italiane, imprese locali e persino per un miserabile subappalto da 2,5 milioni di euro. Roba che avrebbe portato un guadagno personale, a Gianluca Gemelli, di forse nemmeno 200-250.000 euro.
Un governo di venditori di risorse pubbliche per guadagni privatissimi, addiritura “familiari”, al servizio della compagnie petrolifere (le triivellazioni di Tempa Rossa, in Basilicata, sono della Total). Anzi “a disposizione” di queste ultime, come ripete più volte Gemelli nelle telefonate con il dirigente della multinazionale francese.
“A disposizione”, come rispondono gli affiliati semplici agli ordini di un boss mafioso.
Ora il problema che abbiamo tutti è di non permettere a Renzi di uscire salvo dalla peggiore trappola in cui si è andato ad infilare nei due anni da primo ministro non eletto. Il voto al referendum del 17 aprile contro le trivelle deve diventare una sfiducia di massa. E sarà bene accmpagnarlo con robuste iniziative di piazza, perché il giudizio negativo non può essere affidato solo ad un voto comunque difficile (il quorum del 50% degli aventi diritto è un ostacolo di grandi dimensioni).
Il governo della Troika – il terzo, dopo Monti e Letta, insediato direttamente da Unione Europea, Bce e Fmi – è vacillante e screditato, ma di sua volontà non se ne andrà mai. È il momento di dargli una spintarella e metterlo fuori gioco.
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