Il contafrottole di Rignano sull’Arno, nella confortevole culla messa in piedi dal giornale che più lo ama – Repubblica – ha spiegato di essere “pronto a firmare una proposta di legge” che, con il nuovo impianto istituzionale vigente, limiti a due i mandati del premier. Due mandati, ossia dieci anni al massimo, e poi avanti un altro.
Stavolta bisogna credergli.
Non siamo impazziti. Lui è e resta un bugiardo matricolato, ma se discutiamo complessivamente – com’è obbligatorio fare – l’insieme composto da “riforme contro-costituzionali” e legge elettorale chiamata Italicum, vediamo subito che si tratta di un dispositivo di potere per larga parte impersonale. Ossia non dipendente dalla presenza o meno di questo o quel personaggio in posizione dominante. Uno schema dittatoriale, certamente. Ma per la dittatura di un “sistema”, non di una persona.
La cosa appare strana a uno sguardo italiano, perché qui siamo da sempre in presenza di personaggi chiave che se ne vanno solo da morti (non rifacciamo l’elenco, lunghissimo, fino allo stesso Berlusconi, da Andreotti a Napolitano) e dunque con un’idea del “potere” sempre molto personalizzata. Come se il capitalismo non avesse da tempo decretato la fine delle “aziende familiari” a favore delle scoietà per azioni gestite pro tempore da manager, sostituibili in qualsiasi momento in base ai risultati.
In tempi di “antipolitica” diffusa – e anche Renzi cavalca molti stilemi retorici “anti-professionisti della politica” – ai poteri dominanti sembra dunque necessario disporre di una panchina lunga, senza alcuna autonomia progettuale, da cui pescare il jolly che serve al momento per poi scaricarlo in corsa (non mancheranno le possibilità di ringraziarlo profumatamente con altro incarico).
Il punto decisivo per cui stavolta bisogna credere a Renzi è stato del resto involontariamente sollevato più volte da giornalisti di regime nelle interviste a parlamentari Cinque Stelle: “in fondo con i sondaggi di oggi a voi converrebbe andare al voto con l’Italicum”. Ovvero una legge che garantisce il controllo totale del sistema dei poteri istituzionali (Parlamento, governo, presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale, ecc) al partito che prevale al ballottaggio, a prescindere dalla quantità di voti che riceverà in rapporto agli aventi diritto. Di fatto, con un astensionismo vicino al 50% e una legge elettorale che non permette coalizioni, è possibilissimo che arrivino primo e secondo due “partiti” che ricevono tra il 20 e il 30% dei voti validi. Ossia il 10-15% degli elettori. Al ballottaggio, non essendoci ovviamente alcun quorum minimo, potrebbero essere anche meno… In effetti, in questo momento, potrebbe prevalere uno qualsiasi tra destra classica, Pd e Cinque Stelle.
Un sistema siffatto non garantisce insomma il potere di una persona o di un partito, ma il potere del potere sulle persone che vengono introdotte nelle istituzioni un tempo “democratiche”.
Dobbiamo ricordare che la politica per come la conoscevamo era il modo di gestire delle società divise in classi sociali definite e con confini nazionali definiti, in cui si poteva e doveva fare un calcolo preciso delle risorse di ricchezza prodotte e disponibili, ragionare sul come redistribuirle mediante una politica economica e fiscale, stabilendo obiettivi di lungo, medio e breve periodo. Per fare questo occorrevano dei partiti stabili, capaci di legare interessi sociali strutturati e schemi valoriali riconoscibili (liberali, democristiani, socialisti, comunisti, repubblicani, ecc), supportati da corpi intermedi (sindacati, associazionismo, ecc) pensati per convogliare interessi e frammenti di consenso verso un progetto più generale.
In quel quadro, insomma, i “politici di lungo corso” avevano sia un senso che una necessità. Erano effettivamente i garanti – per esperienza, cultura, capacità di “sentire la società” – della tenuta sociale e quindi di un rapporto relativamente stabile tra società e classe dirigente “borghese nazionale”. Ne discendeva tutta una serie di conseguenze, come la formazione dei dirigenti attraverso un lungo percorso attraverso le istituzioni territoriali, ecc, per selezionare sia gli “statisti” (quelli in grado di ragionare sul lungo periodo e sul sistema-paese), sia i portatori di clientele e dunque di consensi elettorali. Con una tacito accordo per cui i primi avrebbero sempre e comunque prevalso sui pur necessari secondi.
Questo mondo è venuto giù insieme alla caduta del Muro, producendo un primo terremoto con Tangentopoli. Di lì cominciarono le litanie su “partiti leggeri”, sempre più comitati elettorali che selezionavano – proprio per questo – solo signori delle tessere e costruttori di clientele. Statisti, zero.
Il progressivo prevalere legislativo e costituzionale delle decisioni dell’Unione Europea – sul piano istituzionale – ha sottratto definitivamente la politica economica e fiscale dalle prerogative dei governi nazionali (o per lo meno in ragione della potenza di ciascun paese: la Germania, per esempio, continua a fare come vuole, la Grecia assolutamente no).
Quindi, letteralmente, è scomparso l’oggetto stesso della politica nazionale: la possibilità di decidere sulla produzione di ricchezza e la sua redistriibuzione tra le varie figure sociali.
Ma se l’oggetto della politica scompare, come potevano sopravvivere i partiti nati nel dopoguerra? E se non ci sono più i partiti, come avviene la selezione della classe dirigente che deve gestire leistituzioni?
La risposta italiana è nota: o ladri o servi della Troika, o meglio ancora figli di Troika con il permesso di lucrare piccole briciole a proprio favore (con l’obbligo al pareggio di bilancio, la “legge di stabilità” supervisionata da Bruxelles e dunque il taglio continuo della spesa pubblica, si vanno progressivamente erodando i margini di “grasso” da redistribuire alle clientele, come hanno scoperto a proprie spese Buzzi e Carminati).
Questo è la “politica possibile” nello schema previsto dal capitale multinazionale attuale. Quindi non ha senso mantenere costosi partiti obbligati a conquistare consenso popolare in qualsiasi modo (con soldi e posti di lavoro, insomma). Bastano comitati elettorali pro tempore, strutturati e gestiti da esperti del settore (pubblicitari, manager del marketing, studiosi dei flussi sui “consumatori di politica”, ecc), cui affidare le sorti di alcuni attori sufficientemente abili nel recitare la parte del “rinnovatore”. Ci penseranno poi i media – a chi appartengono? non è difficile saperlo – a “fare l’opinione pubblica”.
Se così è – e così è – allora qualsiasi possibile premier è un precario consapevole di esserlo, che deve gestire un programma scritto da altri (se volete credere sia stata la Boschi a riscrivere la Costituzione, siete da ricovero), per il tempo strettamente necessario a realizzarlo. Poi altra faccia, altri slogan, altre battute e altre balle.
Se il capitale multinazionale ha manager pro tempore, perché mai la politica del capitale dovrebbe garantire carriere lunghe una vita? State liquidi, boys, l’importante è stare dalla parte giusta…
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