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Brexit. I media spargono il terrore

La grande stampa italiana è “europeista” per definizione. Ed è rimasta scioccata dal risultato del referendum inglese. Non si tratta tanto di una questione ideologica, quanto di concreti modi di vita, ossia di interessi. Sia della proprietà dei vari media, in mano a un establishment che vede nella tecnostruttura di Bruxelles una cosa propria da difendere sempre; sia della parte “storica” delle redazioni, ossia di quelle “firme” che sono anche il volto pubblico più noto di ogni testata, oltre che i più pagati in una stratificazione stipendiale che arriva – in basso – fino ai precari pagati cinque o dieci euro “al pezzo”.

Questa batteria d’artiglieria martella quotidianamente la cosiddetta opinione pubblica, forgiando – qui sì – una vera e propria ideologia pro-Ue a prescindere dal merito delle decisioni fondamentali che la stessa Ue impone.

All’indomani del voto britannico i tasti suonati con ossessività assoluta sono soltanto due: “adesso gli inglesi sono rovinati” (con qualche conseguenza grave sui mercati internazionali e ‘economia italiana) e “hanno vinto i fascisti”.

Il primo tema ideologico è un’esagerazione mostruosa ed unilaterale dei problemi che tutto il sistema globale si troverà ora ad affrontare, con ovvie maggiori conseguenze per il sistema economico britannico, che riflette e anticipa le minacce con cui le “istituzioni sovranazionali” affronteranno il prossimo premier di Londra. Fin qui siamo in piena continuità con l’atteggiamento tenuto nei confronti della Grecia al tempo dello “Tsipras 1”, fino all’acme raggiunta nei giorni del referendum ellenico sul Memorandum, vinto dal “No” ma svenduto dal giovane leader di Syriza in una notte buia e tempestosa.

Ma Londra non è Atene, e tagliare i viveri agli inglesi – come è stato fatto con i geci, bloccando per molti giorni l’erogazione di contanti dai bancomat – non è tecnicamente possibile. Non lo è sul piano monetario, visto che non è l’euro la moneta in uso oltremanica. Non lo è sul piano finanziario, visto che la City è un cuore storico dei mercati globale e il trasferimento delle innumerevoli attività basate nel “miglio d’oro” intorno a Canary Warf è certamente possibile, ma non troppo conveniente e neanche realizzabile in tempi rapidi. Stiamo infatti parlando del centro del centro, non di una semiperiferia dell’impero o di un paese che conta meno del 2% del Pil europeo.

Al massimo, spiega IlSole24Ore

In totale, PwC stima che Brexit potrebbe costare dai 70.000 ai 100.000 posti di lavoro nel settore dei servizi finanziari nel Regno Unito entro il 2020. Il sindaco di Londra Sadiq Khan, forte sostenitore del «Remain», ha fatto appello alle imprese affinché non si facciano rendere dal panico e ha assicurato che la città rimarrà il miglior posto al mondo dove fare affari. Ma le città concorrenti stanno già stendendo il tappeto rosso per i possibili traslochi: il presidente dell’Ile-de-France, Valérie Pécresse, ha detto di essere «pronta ad accogliere tutti coloro che vogliono tornare in Europa». «Benvenuti nella Regione di Parigi – ha poi aggiunto – la nuova Londra».

In mancanza di obiettivi finanziari facilmente spiegabili al “popolino”, la minaccia principale si è subito concentrata… sul calcio e la Formula 1. Un piccolo florilegio aiuta a capire:

Nell’ultimo accordo per il triennio 2016-2019 si è arrivati alla cifra record di 7 miliardi di euro. La torta viene divisa fra tutti, il calcio inglese è diventato un business globale in cui operano magnati thailandesi (Leicester), arabi (Manchester City) americani (Manchester United). Su 20 squadre della massima serie, più della metà è in mani non inglesi. Con la vittoria del fronte Brexit in Gran Bretagna saranno avviate le procedure per l’uscita dall’Unione europea. Per i club sarà una rivoluzione: le leggi comunitarie infatti consentono il libero spostamento dei lavoratori all’interno degli Stati membri. Stelle come Martial, Payet, Kanté oggi sono tesserati come comunitari. Quando la norma cadrà circa 400 giocatori, incluso il campionato scozzese e le leghe minori, non sarebbero in regola. […] Fra le conseguenze più preoccupanti c’è anche un deprezzamento del valore commerciale della Premier: con meno campioni le tv non pagherebbero gli stessi prezzi di oggi. (Corriere della Sera)

La Formula 1 è legata a doppio filo con la Gran Bretagna. Non solo perché la Fom, la società che gestisce i diritti commerciali del circus, fa capo a Bernie Ecclestone e a Londra ha la sua base. Ma perché l’80% dei team si trova nella «F1 Valley», una cintura di industrie di altissima tecnologia che parte dai confini della capitale per abbracciare Milton Keynes, Banbury e Woking. Luoghi resi celebri dalle scuderie che li hanno scelti. La Mercedes è presente a Brackley, base operativa del team campione del mondo, e a Brixworth dove si fabbricano i motori delle monoposto di Hamilton e Rosberg. […] Ecclestone non hai mai sposato campagne politiche, ma sperava in un esito diverso del referendum del 23 giugno. Fra i pochi a schierarsi, fra i team principal, è stato Ron Dennis patron della McLaren che ha spiegato le ragioni del no in una lunga lettera al Times: «Sarebbe illogico uscire dall’Unione Europea, è un salto nell’ignoto». Poco cambierà per i piloti: vivono quasi tutti a Montecarlo, mondo dorato al riparo dalle tempeste finanziarie. (Corriere della Sera)

Ancor peggio, e non avevamo dubbi, riesce a fare Repubblica, il cui editore sta mettendo nei guai Renzi per alcune informazioni da insider a proposito del decreto sulle banche cooperative, mesi prima che venisse scritto e approvato:

Il terremoto sarà uno e sufficientemente devastante per allontanare per sempre il ricordo del calcio inglese modello di riferimento e suggestione culturale permanente. Il primo danno sarà “umano”: i calciatori europei perdono il diritto di entrare e uscire liberamente dal Regno Unito. A pagarla di più saranno le società più ricche, avrà ripercussioni clamorose sulle rose della Premier League. Forse meno, almeno inizialmente, sulle categorie inferiori.

Stretta inevitabile anche sui calciatori extra-comunitari, i quali dovrebbero rispondere a criteri governativi più rigorosi e limitanti. Facendo una rapida somma dei professionisti delle due principali divisioni del calcio inglese e scozzese, più di 300 calciatori (si calcola 322) non rientrerebbero più negli standard di accoglienza, 100 nella sola Premier. Solo 23 dei 180 stranieri attualmente in rosa nel campionato maggiore avrebbero il permesso di lavoro e nessuno dei 53 della Scottish Premier League potrebbe garantirsi la permanenza in Scozia sulla base del proprio profilo agonistico. Una “diminutio” implacabile che non risparmierà neppure la terza e la quarta divisione inglese, dove 109 calciatori sarebbero costretti a fare le valigie.

Brexit allargherà la forchetta tra grandi e piccoli, togliendo al calcio, soprattutto a quello inglese, il privilegio di consentire anche alle ultime in classifica “revenues” dignitose e in linea per future imprese sul mercato dei calciatori. Con Brexit fra lo United e una retrocessa ci saranno distanze “italiane”, come tra Juventus e Frosinone. Anche i calciatori avranno molta meno spinta ad accasarsi in Gran Bretagna: “Stiamo sottostimando il pericolo, la verità è che metà dei calciatori di Premier vedranno il loro permesso di lavoro trasformato in carta straccia”, ammettono i procuratori, preoccupati anche del loro lavoro e delle loro percentuali. “In una situazione del genere porterei via dal Tottenham il mio assistito”, confessa Martin Schoots, l’agente olandese del danese Christian Eriksen.

Ma l’omogeneità tra le varie testate è totale. Anche l’organo di casa Fiat, La Stampa, segue lo stesso copione con poche variazioni:

Con l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, ai calciatori europei verrà applicato lo stesso trattamento finora riservato agli extracomunitari, ovvero per giocare in Premier servirà loro un permesso di lavoro che verrà concesso solo se avranno giocato un certo numero di partite nella loro nazionale (la percentuale, fra il 30% e il 75%, dipende dal ranking Fifa e vale solo per i Paesi ai primi 70 posti) nei due anni precedenti alla richiesta.

Stando al «Daily Mail», ad oggi oltre 100 calciatori della Premier non potrebbero ottenere il via libera del Ministero degli Interni di Londra. Considerando poi le prime due divisioni di Inghilterra e Scozia, il numero sale vertiginosamente e si avvicina ai 400. In altre parole calciatori come Martial, Payet o Kante, con le regole presto in vigore, non potrebbero trovare spazio e in futuro sarà quasi impossibile per i club della Premier aspirare a operazioni come lo sono state in passato quelle che hanno portato Cristiano Ronaldo al Manchester United o Thierry Henry all’Arsenal.

Allarme terroristco, certamente. Peccato che tutto ciò sia una semplice eventualitàm che comincerebbe a diventare concreta solo tra due o più anni (nell’ambito delle procedurali trattative tra Londra e Ue sull’uscita ai sensi dell’art.50 del trattato fondamentale). E ognuno è in grado di giudicare, distogliendo per un attimo gli occhi da fogliacci nostrani, se sia realistico o meno che l’immenso business calcisti britannico (ed europeo) possa essere annientato senza ricorrere -prima d’allora – a nuovi contratti che lo tengano al riparo dalla “tragedia”.

Meno immediate le conseguenze sulle pensioni (di chi lavora non delle star della pedata). Spiega sempre il quotidiano torinese:

I pensionati potrebbero vedere disciolte come neve al sole le loro pensioni, a causa del forte deprezzamento della sterlina, che potrebbe notevolmente compromettere anche i loro investimenti immobiliari nel loro Paese di adozione.

Sarebbe un danno serio, certamente, ma comunque meno grave di quello inferto ai pensionati italiani dalle varie “riforme” degli ultimi venti anni e assolutamente meno serio di quello subito ad opera delle banche (da Etruria alla Popolare di Vicenza) che li hanno costreyyi ad acquistare obbligazioni subordinate o azioni senza mercato, dunque senza valore.

Più vergognosa, invece, la paura sparsa tra gli italiani che vivono o sono intenzionati ad andare alavorare in Gran Bretagna:

Ci sono ancora tanti dubbi. Non è chiaro se l’assistenza sanitaria basata sulla reciprocità della Ue continuerà a funzionare. Probabilmente un italiano che necessiti del pronto soccorso inglese non avrà più un trattamento gratuito. Annullati anche i sussidi di disoccupazione e la possibilità di ottenere un alloggio popolare.

Si omette qui accuratamente di ricordare che il welfare britannico per i cittadini comunitari è già stato ritirato e sostanzialmente annullato nell’ambito delle “quattro condizioni” ricontrattate quest’anno tra Londra e l’Unione Europea. Era uno dei temi “anti-immigrati” che Cameron aveva fatto proprio nel tentativo di sottrarre popolarità a Farage e soci, nel tentativo – riuscitissimo, come si è visto – di assicurarsi la maggioranza nell’ormai fissato referendum sulla Brexit.

Ovvio che i giornali italiani debbano parlare al pubblico di casa. Ma esigere un po’ di informazione, qua e là, non sembra poi così eccessivo.

Stesso discorso sull’attribuzione politica della vittoria alla “destra nazionalistica”. Silenzio assoluto sulla campagna Lexit e l’articolazione sociale del voto. Solo classifiche su giovani contro vecchi (i primo pro-Ue, i secondi “isolazionisti”, probabilmente per questioni di deambulazione…), magari immigrati contro  “indigeni” (come cambiano le stigmate del linguaggio in appena due secoli…). Ma nessuna statistica su come abbiano votato ricchie poveri. Ci fosse un problema di classismo, nella stampa italiana?

Un tema che ci sembra da scandagliare attentamente, nei prossimi giorni, esercitandoci con altri orori della propaganda di regime…

 

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2 Commenti


  • Stroszek

    Suvvia, ma un panino almeno (come diceva qualcuno) glielo vogliamo dare a questi piccoli signori travet delle redazioni di corriere e repubblica? Dovranno pur mangiare, oltre che servire il padrone no??


  • Monsieur Cellophane

    Fanno bene. Speriamo che GB prenda una sberla più forte della Grecia e fra due anni si ritrovi a essere la lesser Britain, senza City, senza Scozia e senza Ulster. Per il bene dei minatori del Galles.

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