Menu

“Partecipate” da privatizzare. Parte il decreto (e i licenziamenti)

Pochi settori sono più disomogenei di quello raggruppato sotto la voce “partecipate”, ossia le aziende controllate, in tutto o in parte, da enti pubblici. Si va infatti da servizi pubblici essenziali (trasporto, energia, acqua, ecc) ad autentici carrozzoni senza alcuno scopo comprensibile. L’unico tratto comune sono i consigli di amministrazione, nominati dagli enti pubblici di riferimento.

In molti casi, dunque, si tratta di autentici poltronifici, la cui unica ragione sociale effettiva è una prebenza per politici trombati, figli di qualcuno da rabbonire, amanti e/o complici in qualche malaffare del sottobosco. In molti altri, però, si tratta dell’ultima salvaguardia dell’interesse pubblico in settori che – se lasciati all’imprenditoria privata – si trasformerebbero in monopoli da cui mungere plusvalenze a volontà.

Sappiamo benissimo che anche in questi casi – l’Atac o l’Acea di Roma, per esempio – il cosiddetto management è straordinariamente in soprannumero rispetto alle esigenze, ma anche sovra-retribuito (specie a confronto con i dipendenti che reggono effettivamente il peso del funzionamento della struttura, alle prese magari con le proteste degli utenti per i disservizi che continuamente si verificano). Abbiamo ancora in memoria le quasi 800 assunzioni in Atac fatte sotto Gianni Alemanno sindaco: nessuna come autista d’autobus, Spiccava – tra i neo-funzionari – il nome di Francesco Bianco, ex membro dei Nar, formazione terrorista fascista di fine anni ’70; lui, l’autista, l’aveva fatto almeno una volta nella vita: era infatti alla guida dell’auto su cui si mosse il nucleo di assassini di Roberto Scialabba (Giusva e Cristiano Fioravanti, Alessandro Alibrandi e Franco Anselmi).

Quindi anche noi, come i lavoratori di tutte le partecipate di utilità pubblica, siamo da sempre favorevoli a uno sfoltimento… dei quadri dirigenziali. I posti da lavoratore ordinario sono del resto sotto organico; potrebbero essere riciclati alla guida di un bus (6 ore e 40 nel traffico di Roma sarebbero una “rieducazione” di notevole severità…).

Siamo dunque contenti che il governo Renzi abbia varato, dopo averlo corretto, il decreto che impone ristrutturazione e dismissioni (ossia privatizzazioni)?

L’esatto contrario. Il decreto ultima versione abbassa ad appena 1,5 milioni il livello minimo del fatturato che consente il “salvataggio” (ovvero il restare in mano pubblica), ma a condizione che le perdite di bilancio – negli ultimi quattro anni su cinque – non siano superiori al 5%. Di fatto, tutte sotto quella soglia andranno chiuse o dismesse (ma, diciamolo, un’”azienda” che fattura – non “guadagna” – meno di un milione mezzo l’anno equivale a un bar o una trattoria…). E stessa sorte subiranno quelle con perdite continuative superiori al 5%. Ovvero: quasi tutte.

Una strage che va a toccare, appunto, tutto quel che riguarda i servizi pubblici essenziali. Il decreto, oltretutto, fissa termini perentori brevissimi per l’avvio delle procedure di dismissione: sei mesi. Entro quel termine i sindaci o i governatori di Regione dovranno presentare i “piani di razionalizzazione” delle rispettive società, disegnandone dunque la cessione o la chiusura, o anche la fusione con altre partecipate dello stesso tipo (evento frequente nel caso di piccoli comuni confinanti tra loro).

L’obiettivo dichiarato del governo è passare da quasi 10.000 ad appena 1.000 società partecipate. Ambizioso e probabilmente irrealistico; ma quello vero sembra, appunto, la privatizzazione delle possibili galline dalle uova d’oro (acua, energia, trasporto pubblico).

Un capitolo particolarmente serio è quello dei prevedibili “esuberi”, ovvero i licenziamenti dei dipendenti in seguito a operazioni di “razionalizzazione” (sia se effettuata da un soggetto che resta pubblico, sia, a maggior ragione, da un privato). Il decreto, molto genericamente, si limita a parlare di “redistribuzione del personale in esubero” presso “altre partecipate”. Il compito viene affidato alle Regioni, che in teoria dovrebbero avere il quadro completo delle partecipate sul proprio territorio, anche se in capo a Comuni. Ma tutto si ferma al “favorire la mobilità territoriale” dei dipendenti in eccesso, peraltro limitata alla semlice trasmissione degli elenchi all’agenzia nazionale per il lavoro prevista (ma non ancora entrata in funzione) dal Jobs Act.

In teoria, le atre partecipate che dovessero aver bisogno di personale aggiuntivo saranno obbligate a pescare in questi elenchi particolari.

Ma si tratta chiaramente di una vigliacca presa per i fondelli: tutte le partecipate, infatti, saranno praticamente costrette – in base ai criteri indicati dal decreto gvernativo – a licenziare buona parte dei propri dipendenti (a parte alcuni “profili professionali specifici”, ancora non indicati, che sembrano alludere alla conservazione di un posto comunque per i livelli dirigenziali).

Questi saranno licenziamenti e basta.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *