L'editoria cartacea è in crisi da anni. “Colpa” della rete, dell'informazione digitale gratuita, del degrado della professione giornalistica specie in questo paese (grandi firme iperpagate, ma scendiletto di proprietà e governo, più un esercito di precari/collaboratori pagati meno di una babysitter e privi di qualsiasi tutela a garanzia dell'indipendenza).
Fin qui siamo nella norma. Ma che succede se il miglior quotidiano italiano – a nostro giudizio – e anche il più attendibile, si ritrova in una crisi finanziaria senza precedenti?
La vicenda assume poi contorni involontariamente paradossali quando si va a vedere che si tratta de IlSole24Ore, organo di Confindustria, primo quotidiano finanziario, zeppo di esperti-consulenti-consigliori su come gestire il proprio patrimonio, amministrato da luminari della buona gestione dei conti e delle scelte industriali.
Insomma, il quotidiano che prova più di tutti a indirizzare la politica economica del governo per “promuovere la crescita” e “uscire dalla crisi”, grazie all'autorevolezza dei suoi analisti-commentatori, rappresenta in questo momento il massimo del disastro nella gestione di un quotidiano.
L'inchiesta pubblicata da Business Insider, che qui sotto riproduciamo, tocca molti nodi altrettanto paradossali. Ad esempio: il Sole, in quanto proprietà di Confindustria, è “bene comune” di tutti gli imprenditori iscritti al “sindacato dei padroni”. Una ricapitalizzazione da 100 milioni cambierebbe questa situazione proprietaria, rendendo il quotidiano “più personalizzato”, ossia con una proprietà preponderante rispetto a quella collettiva (sono adorabili le contraddizioni in cui incappano degli individualisti strutturali quando debbono agire come soggetto collettivo…).
Ma se cambia l'equilibrio proprietario, c'è il forte rischio che anche la credibilità – al momento altissima – del giornale possa decadere al livello degli altri quotidiani, proprietà di qualcuno in particolare (si veda la triste fine di Repubblica, forse il giornale peggiore del lotto).
Altrettanto paradossale è l'entità del “buco”, tale da impedire il ricorso facile a prestiti bancari, perché implicherebbe vendere o mettere sotto ipoteca quasi tutto il patrimonio immobiliare di Confindustria. Un vero capolavoro, per dei “maestri” della gestione ottimale e razionale, del corretto rapporto entrate/uscite, ecc.
Oscena, più che paradossale, è invece la vicenda dei compensi favolosi ad amministratori che stavano affossando i conti dell'impresa. Un comportamento che siamo abituati a vedere nelle pubbliche amministrazioni conquistate dalla malavita organizzata, ma che teoricamente non dovrebbero avere spazio nella più “collettiva” delle imprese private.
Ma di questa pasta è fatta la “classe dirigente” italica, a prescindere dal ruolo momentaneamente o stabilmente occupato (imprenditore, manager, politico, amministratore, ecc). Questi sono quelli che hanno chiesto e applaudito il Jobs Act dopo il "pacchetto Treu", la "legge 30", la precarizzazione totale, i voucher, l'abolizione dell'art. 18, la riforma Fornero, i tagli alla sanità, i fondi alle scuole private mentre si tagliavano quelli alla suola pubblica, quelli che hanno voluto una università "legata al mondo delle imprese" proprio mentre le imprese scappavano dall'Italia verso lidi a poco prezzo del lavoro. Questi. Che un diavolo se li prenda e li sprofondi nel più terribile degli inferni.
*****
La crisi del Sole 24 Ore fa scattare l’allarme rosso in Confindustria
Giuseppe Oddo – Business Insider Italia
Sarà una corsa a ostacoli per Confindustria l’aumento di capitale del Sole 24 Ore. Alla società editrice del più noto quotidiano di economia, di cui la confederazione degli imprenditori possiede la maggioranza assoluta, occorre un’iniezione di mezzi propri di un centinaio di milioni che ne ripristini l’equilibrio patrimoniale e che ponga le condizioni di una futura ripresa dell’azienda. Le strade sono due: o la ricapitalizzazione ricade sulle associazioni territoriali più forti di Lombardia, Emilia, Veneto e Piemonte – il cui ingresso diretto nella compagine azionaria modificherebbe gli equilibri e la governance del gruppo – oppure deve farsene carico direttamente Confindustria con una richiesta di finanziamento alle banche che la costringerebbe a ipotecare le sue sedi, a partire da quella romana di viale dell’Astronomia, e forse anche a cedere in garanzia il suo 67,5% del Sole 24 Ore. Ma Confindustria sarebbe poi in grado di rimborsare con le proprie entrate un debito finanziario di svariate decine di milioni? Un’esposizione non sostenibile nel medio-lungo periodo potrebbe comportare, per l’associazione presieduta da Vincenzo Boccia, la perdita congiunta della proprietà degli immobili e del controllo del quotidiano.
Una terza soluzione potrebbe essere l’apertura dell’azionariato a un socio industriale (tra i potenziali candidati c’è l’editore del Messaggero, Francesco Gaetano Caltagirone), ma come si comporterebbe il consiglio generale di Confindustria di fronte a un’ipotesi del genere? Oltre tutto, quale potenziale socio nazionale o internazionale prenderebbe in considerazione l’alleanza con un gruppo in stato di quasi dissesto, che non ha ancora presentato agli investitori di Borsa un piano industriale per il ritorno in bonis dell’azienda?
A dire la verità, un piano industriale c’era: lo aveva preparato Gabriele Del Torchio, che a cinque mesi dalla sua nomina ad amministratore delegato, dopo avere fatto luce su alcuni lati oscuri del bilancio, è stato rimosso e sostituito con l’ex numero uno di Amplifon Franco Moscetti. Il piano, consegnato al Cda del 3 novembre 2016, era imperniato su una “modesta crescita dei ricavi, in particolare dei settori formazione e della pubblicità” e su una “incisiva azione di riduzione dei costi”, tra cui quelli di affitto delle sedi di Milano e Roma e quelli di distribuzione con la società M-Dis (controllata da De Agostini e Rcs con quote paritetiche del 45%), il cui contratto era giudicato “poco conveniente”. Il costo del personale avrebbe dovuto attestarsi sui 98 milioni l’anno. Il consiglio approvò il documento anche con il voto favorevole del vicepresidente pro-tempore Luigi Abete e del direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci, i quali solo pochi giorni dopo furono rieletti nel nuovo Cda, presieduto da Giorgio Fossa.
Durante la discussione che precedette l’approvazione, il consigliere indipendente Nicolò Dubini evidenziò che l’area publishing & digital, che racchiude le attività editoriali, rappresentava “la principale fonte di perdita” dell’azienda. Dubini affermò che, negli anni 2012-2016, l’area publishing & digital aveva “contribuito maggiormente all’erosione di patrimonio netto” del gruppo, cumulando una perdita operativa lorda di 103,4 milioni: dati che smentivano clamorosamente le informazioni di segno contrario diffuse dalla direzione del quotidiano e dai piani alti dell’azienda. Lo steso Cda deliberò all’unanimità, con il voto favorevole di Abete e Panucci, di corrispondere a Del Torchio “un bonus straordinario per l’esercizio 2016 pari a 300mila euro lordi” proprio come premio per l’approvazione del piano. Perché, allora, il consiglio entrato in carica appena qualche giorno dopo ha deciso di cassarlo, ritenendolo inadeguato? E come mai – rispondendo per iscritto alla domanda di un azionista-dipendente – ha dichiarato di non avere elargito “alcuna somma in relazione all’approvazione delle linee guida del piano industriale 2016-2020”?
I documenti pubblicati nelle ultime settimane nel sito della società, sottoposta dalla Consob a serrati obblighi di informazione al mercato, aiutano peraltro a capire meglio lo stato dei conti e la situazione patrimoniale. Nel bilancio al 30 novembre 2016 il gruppo riporta 29 milioni di liquidità, un indebitamento finanziario corrente di 74 milioni (che al netto della liquidità e di altre poste scendono a 50) e un patrimonio netto di 18 milioni (dato di ottobre 2016). Il totale dei debiti correnti è in altre parole pari a quasi quattro volte il valore dei mezzi propri, e per di più in febbraio dovrebbe scadere l’accordo di standstill con le banche, ossia il temporaneo congelamento del rimborso delle rate di capitale e interesse. Cosa succederà dopo? Molto dipenderà dai tempi previsti per l’aumento di capitale e dalle decisioni del principale creditore, Intesa Sanpaolo.
Dai comunicati aziendali e dalle informazioni trasmesse dal Cda all’assemblea del 22 dicembre sono inoltre emersi squarci di verità sui dati di mercato del quotidiano. Da una diffusione media giornaliera di 375mila copie cartacee e digitali, indicata nel bilancio 2015, Il Sole 24 Ore è crollato, nel 2016, a 248mila copie: una discesa vertiginosa che origina dalla decisione di Ads (la società che certifica le vendite dei giornali) di sospendere la rilevazione delle copie digitali multiple destinate a grandi clienti e in particolare a banche e imprese. Il sospetto è che siano servite a taroccare i dati di vendita. Da un audit commissionato dal precedente consiglio alla società Protiviti è emerso che 44mila copie del Sole 24 Ore in formato digitale facevano capo a utenze fantasma, mai attivate. Le copie digitali multiple attualmente sospese dal calcolo della diffusione sono in totale 109.600, e altre 18mila copie cartacee risultano escluse dal conteggio perché offerte a prezzi di promozione risibili. Dopo le anticipazioni pubblicate dall’Espresso sui risultati dell’audit e sulle manovre per insabbiarli, il documento è stato acquisito dal nucleo valutario della Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta per falso in bilancio coordinata dal sostituto procuratore di Milano Gaetano Ruta.
Per le copie digitali multiple Il Sole 24 Ore aveva stipulato un contratto di intermediazione con Di Source, società paravento domiciliata in Gran Bretagna, mentre la vendita congiunta del giornale cartaceo e di quello digitale è tuttora affidata a Edifreepress e gruppo Johnson. E’ anomalo il fatto che queste campagne promozionali abbiano comportato e comportino costi superiori ai ricavi. Per esempio: a fronte delle 31.300 copie digitali multiple vendute da Di Source nel 2015, Il Sole 24 Ore ha contabilizzato 5,5 milioni di ricavi e 6,5 di costi, cioè una perdita operativa di un milione, e la differenza tra ricavi e costi è stata negativa anche nei casi di Edifreepress e gruppo Johnson.
Cosa ci ha guadagnato Il Sole 24 Ore? Il prezzo medio in edicola di una copia del giornale è di circa 2 euro. Diversi albergatori milanesi con cui abbiamo parlato acquistano invece dal gruppo Johnson la stessa copia ad appena 30 centesimi. Il gestore dell’edicola di viale della Stazione a Terni, Massimo Ciarulli, ci segnala che tra ottobre 2013 e gennaio 2016, il periodo in cui Il Sole 24 Ore e Il Giornale dell’Umbria erano offerti insieme (in vendita abbinata obbligatoria) a 1,10 euro, il quotidiano confindustriale era svenduto ai giornalai umbri a 20-30 centesimi a copia contro un prezzo di copertina nel resto d’Italia di 1,50-2 euro. Ciarulli ha scritto alla direzione del giornale, lamentando la corsa sfrenata al ribasso che erode i già magri guadagni del rivenditore: “Non credo sia una brillate operazione di marketing offrire prodotti di un certo valore a prezzi così stracciati”.
Perché, dunque, questa dissipazione di risorse in promozioni che aggiungono perdite alle perdite mentre l’azienda continua a chiudere i conti in “rosso”, a ridurre il fatturato pubblicitario, i ricavi da edicola e da abbonamento e ad utilizzare denaro pubblico per cassa integrazione e contratti di solidarietà?
Nel 2007-2008, il periodo della quotazione in Borsa, il giro d’affari consolidato del Sole 24 Ore viaggiava sui 600 milioni, 250 dei quali provenienti dalla pubblicità; i ricavi del 2016 sono stimati sui 250 milioni, di cui solo 100 imputabili alla pubblicità. Dal perimetro del gruppo sono nel frattempo uscite le attività che erano state acquisite in prossimità della quotazione. A dare però il colpo di grazia all’impresa che ha arricchito Confindustria per tre decenni è stato il suo progressivo distacco dal modello di specializzazione economica che ne aveva decretato il successo a partire dagli anni ’80 e l’innesto al suo interno di aree generaliste che ne hanno appesantito la struttura dei costi e ne hanno prosciugato come idrovore il mare di utili in cui galleggiava.
Nel tentativo di inseguire il gigantismo editoriale praticato da tutti gli altri editori, contro cui si scagliò Giorgio Bocca in un saggio (“Il padrone in redazione”) che riletto oggi è di un’attualità impressionante, il gruppo ha commesso una catena di errori: dalla vendita della storica sede di via Lomazzo al contratto di affitto capestro per la nuova sede di via Monte Rosa, prima acquistata e riedificata in parte e poi ceduta a un fondo immobiliare a cui Il Sole 24 Ore versa un canone annuo che lo ha dissanguato; dall’avventura disastrosa della televisione alla realizzazione di piattaforme tecnologiche non comunicanti tra loro, la cui unificazione è avvenuta solo in anni recenti. La stessa Radio 24, che è indubbiamente una storia di successo, l’unica degli ultimi anni, ha richiesto oltre 100 milioni di investimenti per l’acquisto delle frequenze, che il gruppo non ha ancora finito di ammortizzare.
Sono state inoltre sottovalutate le conseguenze di una transizione accelerata dal cartaceo al digitale. La copia digitale ha bassi costi di produzione e alti margini di guadagno, ma talvolta si dimentica che i giornali hanno anche una importante componente manifatturiera con tanto di rotative, operai e tecnici, e che l’aumento delle copie digitali lascia inutilizzate, nei centri stampa, quote crescenti di capacità produttiva che continuano a generare costi. Non a caso il Cda presieduto da Benito Benedini stava negoziando nel 2013 la vendita degli stabilimenti di Milano e Carsoli, che interruppe a un passo dalla conclusione ritenendo svantaggioso il contratto di stampa che avrebbe dovuto sottoscrivere con l’acquirente degli impianti tipografici.
I dividendi che Confindustria intascava negli anni ’90 e che ha ricevuto fino al momento della quotazione appartengono ormai alla storia. La gallina che un tempo depositava uova d’oro oggi deposita uova di pietra. Tra gennaio e ottobre 2016, il gruppo ha contabilizzato una perdita operativa lorda di oltre 21 milioni, una perdita operativa netta di 41 milioni e un risultato netto negativo di 57,5 milioni. E ancora più impressionante è il collasso del patrimonio netto seguito alle pulizie di bilancio della brevissima ma intensa gestione Del Torchio: 102 milioni il 1° gennaio 2015, 76,5 milioni il 31 dicembre dello stesso anno, 18,1 milioni il 30 settembre 2016. Se diamo per buona la rilevazione Ads di ottobre 2016, le vendite a pagamento giornaliere del quotidiano cartaceo ammontano a 106.000 copie, di cui 32.500 per abbonamento, e la diffusione complessiva (cartacea più digitale) sfiora le 207mila copie. Altro che le 375mila copie del 2015! E’ un tracollo in piena regola, che dovrebbe indurre l’azionista di maggioranza a cambiare passo: redigendo alla svelta un piano industriale di ristrutturazione ma anche di sviluppo, agendo contro i responsabili del dissesto, ricomponendo le fratture al proprio interno per fare quadrato intorno al giornale e non irrigidendosi per la sfiducia che i giornalisti del Sole 24 Ore e di Radio 24 hanno manifestato a larga maggioranza contro il loro direttore, Roberto Napoletano.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa