Una coltre di polvere soporifera sembra ricoprire i media italiani rispetto alle critiche di apartheid e di violazione di diritti mosse negli ultimi mesi dall’ONU a Israele. Le squadre di calcio popolare partenopee affidano il compito di squarciarla alla propria mobilitazione per chiedere a Maradona, assunto nell’empireo della FIFA, di sostenere le richieste palestinesi.
Carta stampata, radio e tv, nella generalità dei casi, non hanno dato risalto alla Risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016 del Consiglio di sicurezza dell’ONU che ancora una volta ricorda l’illegalità delle colonie, se non per riferire delle proteste israeliane, spesso, come nel caso di RAI1, adottandone la terminologia, dimentica del Diritto Internazionale. In tal modo, ad esempio, i territori palestinesi occupati sono stati tramutati in “territori contesi”. Del rapporto presentato lo scorso 15 marzo dalla Direttrice Rima Khalaf della Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l'Asia occidentale (ESCWA), “Pratiche israeliane verso il popolo palestinese e la questione dell’apartheid”, solo i ricercatori e gli appassionati hanno avuto notizia e ne conoscono per sommi capi il contenuto, al più qualcuno ha saputo che è stato fatto ritirare dal Segretario Generale dell’ONU Guterres o che gli ambasciatori USA Nikki Haley ed israeliano Danny Danon all’ONU avevano protestato e sono stati soddisfatti del suo ritiro dal sito ufficiale. L’eventuale legittima curiosità sul suo contenuto non viene assecondata né trova facile soddisfazione.
Nonostante i due ravvicinati pronunciamenti dell’organizzazione mondiale, nata “per garantire la pace”, non si ha notizia di loro ripercussioni nelle azioni degli Stati, se si escludono le ire israeliane riportate dalla stampa. Anche l’etichettatura differenziata per i prodotti delle colonie, stabilita dall’UE, non ha lasciato segni tangibili nei nostri negozi e supermercati. Come se un incantesimo coprisse di una spessissima coltre di polvere un sonno profondo di media ed istituzioni italiani. Un letargo che dev’essere salvaguardato dagli strilli d’aquila di sostenitori italiani e stranieri dello Stato d’Israele autoproclamatisi “osservatori” sulle “discriminazioni”, al punto che qualche sonnambulo scosso da questi gridi faccia immediata marcia indietro rispetto ad iniziative già decise e concessioni di sale pubbliche già assicurate. Sembra che per lasciar proseguire indisturbato il sonno collettivo, si possa rinunciare ad assicurare fondamentali diritti democratici come libertà di parola e d’informazione. I numerosi episodi verificatisi a Roma nel corrente mese di marzo sono segnali molto allarmanti per la sopravvivenza di spazi democratici. Tuttavia, le iniziative sulla Palestina proseguono e con successo, anche quando sono esiliate da sedi istituzionali. Pochi gli Enti Locali che non soccombono alle pressioni, per questo attaccati con accuse ridicole.
Non si sottrae a questa pesante cappa il mondo sportivo. Uno dei pochi che ancora aggregano persone e quello verso cui anche i media convogliano l’attenzione e il desiderio di esprimersi degli utenti. Molto presto sono state dimenticate le divise ufficiali della delegazione palestinese alle Olimpiadi non fatte arrivare in tempo da Israele per la solenne cerimonia di apertura. Quando pure la loro assenza e la sua causa sono state fatte registrare. Le richieste palestinesi alla FIFA, poi, sono di esclusiva circolazione carbonara. E pure al calcio si è a lungo assegnato il compito di ostacolare il razzismo. Almeno quello delle tifoserie.
A differenza di quanto accade in Scozia (Celtic), Irlanda (Dundalk ), Galles (Newport) ed Inghilterra (Chelsea e Arsenal), in Italia il calcio blasonato dei campionati principali e degli affari miliardari non lascia spazio all’espressione di passione politica delle tifoserie e tanto meno a quella dei calciatori. Il business imbalsama come in un laboratorio asettico e sotto 1 vuoto spinto la cittadinanza viva di coloro che vi sono implicati ed in questa rete ha catturato anche i tifosi, a cui è lasciata vivere un’unica passione: quella per la squadra. Anche le passate mobilitazioni a sostegno della liberazione del calciatore palestinese Mahmoud Sarsak, detenuto senza accusa per tre anni, e contro l’attacco del 2012 a Gaza e la UEFA Under 21 del 2013 in Israele non contemplarono calciatori italiani.
A chi chiede alla FIFA di non lasciare inascoltate le segnalazioni ormai numerose sulla situazione di apartheid israeliana, si contrappone abitualmente una presunta “neutralità” dello sport rispetto alla politica e spesso si prende il richiedente a bersaglio dell’accusa di politicizzare lo sport. E pure, sembra che si faccia un uso quanto meno disinvolto e variabile di questa enunciazione. Per la campagna Red Card Israeli Apartheid-‐Racism/Cartellino Rosso all’Apartheid Israeliana, nata nel 2011, quando cercava di contrastare le finali UEFA Under 21 in Israele, accusata dai sostenitori d’Israele di politicizzare lo sport, questa “normalizzazione” d’Israele nella vita calcistica internazionale è finalizzata a far dimenticare i conti in sospeso con la legalità internazionale, rappresentati da innumerevoli risoluzioni ONU non rispettate e da palesi e reiterate violazioni della IV Convenzione di Ginevra ai danni dei nativi palestinesi, di cui occupa da cinquant’anni i territori occupati con la guerra del 1967 e da sessantanove non rispetta il Diritto al ritorno degli espulsi con gli atti terroristici e di guerra con cui si è costituito il 1948.
Girando per una qualsiasi libreria ben fornita, è facile imbattersi in un settore piuttosto nutrito di pubblicazioni sul calcio. Oggetto di studi sociologici da più decenni, questo sport affermatosi dagli anni ‘90 come multimiliardario terreno economico dagli intrecci internazionali, conserva e rafforza la sua funzionalità politica. “Quanto a calcio e politica, (…) la politica si era servita in vari dosaggi del pallone, in Italia come nel resto del mondo, e nella storia. Basti ricordare l’Argentina di Videla e i suoi Mondiali insanguinati del ’78, accettati dalla diplomazia internazionale”. Scrivono Oliviero Beha e Andrea Di Caro nel loro INDAGINE SUL CALCIO di più di dieci anni fa. Furono politici i motivi per cui l’IFA, federazione israeliana, nel 1974 abbandonò il suo naturale campionato continentale dell’AFC: “Israele decise però di lasciare l'AFC Confederazione Calcio Asiatica nel 1974 per motivi politici.” recita la scheda di presentazione del Campionato nazionale israeliano sul sito ufficiale della UEFA. Ancora politica l’apertura che nel 1994 (dopo gli Accordi di Oslo e grazie ad essi) permise all’IFA di entrare dopo lunghe trattative nella UEFA. Israele esplicitò in modo inequivocabile quanto conti sul calcio per assestare la propria posizione internazionale, in particolare quando nonostante le proteste internazionali ospitò le finali della UEFA under 21 del 2013. Avi Nimni, ex capitano della nazionale israeliana e ambasciatore della fase finale degli Europei U21 dichiarò: "Il risultato più importante finora è che il torneo si svolga in Israele”.
Nel 2013, secondo la notizia riportata da Haaretz, quotidiano israeliano, alla richiesta di Desmond Tutu perché la Uefa non lasciasse che il campionato si svolgesse in Israele, Gianni Infantino, al tempo Segretario generale della UEFA , parlando dopo il Congresso della UEFA a Londra, rifiutò di condannare Israele o di accettare che la competizione fosse spostata, dicendo in una conferenza stampa: "La UEFA e la federazione israeliana sono responsabili per il calcio, non possono essere ritenute responsabili delle politiche di un governo nazionale”. Tuttavia fu proprio Gianni Infantino, solo un anno dopo, nel 2014, nella stessa veste di Segretario Generale della UEFA, a bandire dall’UEFA le squadre che giocano in Crimea e che dopo l’annessione nel 2014 fanno parte della Federazione Russa.
Anche ora, come Presidente della FIFA, Infantino sembra poco incline ad accogliere le ingiunzioni del diritto internazionale e le richieste di applicare gli articoli 10-‐1, 13-‐1/i e 17-‐1 2 degli Statuti FIFA nei confronti di Israele. Benché abbia ereditato da Blatter una problematica specifica: imporre alla Federazione israeliana (IFA) l’esclusione dal suo campionato delle sei squadre delle colonie che vi sono tesserate, così come proprio lui aveva provveduto a fare per la Uefa con le squadre della Crimea o, in alternativa, escludere l’IFA dalla FIFA. Infatti, è questa la questione su cui oggi si è concentrata la stessa richiesta dell’Associazione Palestinese del Calcio (PFA). Già sollevata al 65° Congresso del 2015, si aggiungeva a quella più ampia del permanere di restrizioni di movimento di calciatori ed allenatori e dell’impossibilità per i due club di Gerusalemme Est di svolgere le proprie attività sportive, nonostante che questi ed altri impedimenti alla pratica del calcio palestinese fossero stati portati davanti alla FIFA stessa in precedenza, divenendo oggetto di lavoro della Task force istituita dalla FIFA per il loro superamento. Il Congresso del 2015, dopo il ritiro da parte del Presidente della PFA Rajoub della richiesta ufficiale da lui presentata per la sospensione dell’IFA, stabilì una Commissione di monitoraggio delle situazioni denunciate dai Palestinesi, presieduta da Tokyo Sexwale, uomo d’affari Sudafricano ed attivista antiapartheid.
Per affrontare la questione delle squadre degli insediamenti, l’ex Presidente Blatter si era rivolto all’ONU per avere certezza che le località di queste sei squadre fossero effettivamente territori palestinesi occupati da Israele. Le risposte sono state chiare, inequivocabili e scontate: sono territori occupati e, dopo, anche la Risoluzione 2334 lo ha riconfermato.
Human Right Watch, sessantasei deputati dell’Unione Europea e migliaia di firme on line si appellano alla FIFA perché obblighi l’IFA a trasferire su territorio israeliano i tornei delle colonie in Cisgiordania o sospenda l’IFA, così come da anni chiedono altre migliaia di firme on line.
Il Presidente della Federazione Israeliana di Calcio (IFA), Ofer Eini, ha rifiutato di spostare le partite dagli insediamenti (illegali) sul territorio d’Israele.
La decisione è tornata per intero alla FIFA. Secondo i nuovi Statuti, adottati nel Congresso straordinario del febbraio 2016 a Zurigo, soltanto il Consiglio può decidere la sospensione o l’espulsione di un’associazione membro nel Congresso annuale. Pertanto, per l’espulsione dell’IFA dalla FIFA bisogna che la decisione sia presa dal Consiglio. Il Presidente del Comitato di monitoraggio, Sexwale ha confermato che i problemi del calcio palestinese sono di natura politica, ma non ha fatto in tempo a presentare il proprio rapporto, gli ostacoli frappostigli dall’IFA e dalla FIFA stessa glielo hanno impedito, pare. E’ così passata inutilmente per la faccenda dei club delle colonie anche la data del 10 febbraio 2017, ultima data utile per depositare il rapporto affinché potesse essere discusso nel prossimo 67° Congresso che si terrà l’11 maggio. Il Comitato Esecutivo Asiatico (AFC) il 28 Febbraio a Kuala Lumpurha ha insistito che la FIFA individui una risoluzione urgente della questione tra Israele e Palestina e ha chiesto al Comitato di monitoraggio della FIFA di indicare il più presto possibile la migliore soluzione per l’applicazione degli Statuti FIFA.
Che la questione sia politica e, come tale, di politica sportiva, non sfugge a nessuno. La pretesa israeliana che lo sport non abbia niente a che vedere con la politica, oltre che palesemente falsa (altrimenti, perché si sarebbe espresso Netanyahu? Perché avrebbero dichiarato alla knesset la IFA organo dello Stato e suo rappresentante all’estero?) Che anche nel calcio viga la segregazione razziale lo ha ben dimostrato il gesto compiuto dalla squadra di adolescenti palestinesi beduini dell’area di Gerusalemme. L’11 ottobre 2016 si è presentata agli impianti sportivi della colonia di Ma’ale Adumim per usufruirne, ma nonostante che questa come le altre colonie sia illegalmente edificata su territorio palestinese, l’accesso alla struttura le è stato nettamente rifiutato. Anche l’opposizione israeliana alle richieste di applicazione dello 3 Statuto FIFA è tutta politica: insistere nel permanere nella FIFA pur tesserando i club delle colonie è incamerare un riconoscimento implicito dell’annessione delle colonie ad Israele, così come dopo l’elezione di Trump alla presidenza degli USA lo Stato ebraico ha mostrato di voler fare, con la legge approvata il 6 febbraio dalla knesset per la “legalizzazione” di 4mila insediamenti israeliani costruiti su terreni privati palestinesi, immancabilmente e senza tema di smentita illegali per il diritto internazionale.
Pure nel calcio, come in ogni altro settore, sembrano arrivati e pressanti i condizionamenti israeliani, come si apprende dall’intervista a Simon Johnson, inglese capo esecutivo del Consiglio della Lega Ebraica, chiamata da Israele a sostenerlo nella ricerca di basi legali per intraprendere azioni punitive contro il lavoro del Comitato di Monitoraggio della FIFA sulle squadre degli insediamenti. Forse il ritiro della richiesta di sospensione dell’IFA fu una conseguenza di queste ingerenze.
La PFA ha fatto sapere che se non avrà risposta dalla FIFA, si rivolgerà alla Corte di Arbitrato dello Sport. Nel frattempo, la campagna di boicottaggio sportivo è stata assunta dal BNC (Comitato Nazionale Palestinese del Boicottaggio Disinvestimenti e Sanzioni contro Israele), che ha prodotto un appello all’azione. Tuttavia, Il repentino dietrofront al 65° Congresso di Zurigo ha lasciato perplessi diversi sostenitori della Campagna internazionale di boicottaggio sportivo. Avevano sostenuto la richiesta di sospensione dell’IFA con numerose mobilitazioni, recandosi anche a Zurigo quel 29 maggio 2015, quando subirono lo sconcerto del ritiro palestinese della richiesta di sospendere la Federazione Israeliana, in particolare erano Inglesi e Francesi, ma c’erano anche qualche Italiano e di altra provenienza.
La campagna si è riaccesa l’estate scorsa, soprattutto con le diverse manifestazioni di tifosi anglosassoni, quella del Celtic è riuscita ad emergere dal silenzio, per la determinazione oltre che per la partecipazione di massa degli sportivi, che hanno dato vita ad una colletta per consentirsela, pagando l’immancabile multa imposta dal governo calcistico. Anche al San Siro di Milano lo scorso 15 settembre gli attivisti hanno manifestato, fuori dello stadio, durante la partita Inter-‐ Hapoel Beer Sheva. Di migliaia di persone è stata la dimostrazione di strada a cui hanno dato vita gli Spagnoli il 24 marzo nelle strade della città di Gijon contro la competizione Spagna-‐ Israele per le qualificazioni dei mondiali 2018 in Russia.
In qualche città italiana il testimone nella staffetta di solidarietà con il calcio palestinese è stato preso soprattutto dalle squadre di calcio popolare, quelle che vogliono riportare lo sport ai suoi valori sociali liberandolo dalla servitù del giro di affari. A Napoli, dove aderiscono da anni alla campagna Cartellino Rosso all’Apartheid Israeliana, con il Comitato BDS Campania hanno dato vita ad un programma di sensibilizzazione e mobilitazioni, incominciato lo scorso mercoledì con un’occupazione simbolica del campo Paradiso, a Soccavo, dove si allenava la squadra del Napoli ai tempi di Maradona. Ed è proprio a lui che vogliono rivolgersi. Maradona, che riceverà la cittadinanza onoraria votata dal Consiglio Comunale, è stato chiamato da Gianni Infantino, l’attuale Presidente della FIFA, a collaborare con l’organo di governo mondiale del calcio. Maradona, che celebra su fb, il giorno nazionale argentino della memoria per la verità e la giustizia, il tragico 24 marzo 1976 dell’instaurazione della feroce dittatura militare in Argentina, quella che fu premiata dai mondiali di calcio del 1978, con cui riuscì a coprire ancora a lungo le proprie sanguinarie vergogne. Stella Rossa 2006, Quartograd, Lokomotiv Flegrea e Calcio popolare Soccavo, vogliono incontrare Maradona e chiedergli la coerenza che si aspettano da lui: si esprima contro l'apartheid israeliana che coinvolge anche il calcio. Con cittadine e cittadini che vorranno condividere la loro richiesta, dalle 12,00 saranno in presidio martedì 28 marzo davanti alla sede del Comune, palazzo San Giacomo.
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