Che non si sappia troppo in giro, ma entro la fine dell’anno, il Parlamento dovrà ratificare il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, noto con l’asettico nome di “Fiscal Compact”.
Naturalmente tg e giornali sono occupati con notizie molto più importanti (la festa del Pd, l’assenza di Prodi, i malumori che animano e solleva D’Alema, le turbe di Salvini, le cazzate di Berlusconi sul bidet, ecc). Dunque soltanto a dei guastafeste come noi poteva venire in mente di ricordare uno dei tanti “impegni europei” che il parlamento italiano (con la minuscola, vista la fauna che l’abita) è abituato a votare all’unanimità, senza neanche chiedersi di cazzo si tratti.
Eppur il Fiscal Compact, per un governo e un’intera classe politica, equivale grosso modo a un cappio intorno al collo. Vero è che quel cappio strozzerà buona parte della popolazione, e non le loro sfuggenti giugulari, ma anche un ceto politico democristiano di trent’anni fa avrebbe occupato l’intera sessione autunnale dei lavori parlamentari per discutere di un trattato che inchioda i prossimi venti anni di finanze pubbliche. Ossia la materia con cui, nel bene e nel male, si governa un paese.
Colmiamo la lacuna, consapevoli che comunque non conquisteremo il centro della scena.
Cosa prevede il Fiscal Compact? Una bazzeccola come l’obbligo di riportare il debito pubblico (l’intero ammontare storico) entro il 60% del Pil nell’arco dei prossimi 20 anni.
Quel limite fu deciso nei trattati di Maastricht, un quarto di secolo fa, quando l’’economia “tirava” grazie anche alla colonizzazione dell’ex impero sovietico e alla messa al lavoro capitalistico della Cina. Dunque sembrava persino facile (se il Pil sale, la proporzione tra debito e Pil diminuisce già da sola, in buona parte).
Il problema è che da dieci anni siamo – tutti, il mondo meno alcune aree, coma la Cina – in crisi economica. L’Italia, per conto suo, vede ancora il proprio Pil rimanere il 7% sotto il livello raggiunto nel 2007. Nonostante – o anche a causa – delle misure di austerità imposte dall’Unione Eruropea e dalla Troika (Ue, Bce, Fmi). La spesa pubblica è stata tagliata in modo spesso forsennato (ce ne accorgiamo soprattutto nella sanità, in campo pensionistico, nell’istruzione; lo hanno sperimentato persino gli ex furbetti del “terzo settore”…), ma il rapporto debito/Pil è cresciuto fino a superare il 130%.
A questo punto un qualsiasi esponente politico prenderebbe in mano la calcolatrice e farebbe due conti. Per riportare il debito al 60% del Pil in 20 anni dal livello in cui si trova bisogna tagliarlo del 5,5% ogni anno.
Ok, ma di quanto stiamo parlando, in volgari soldoni? In fondo le percentuali possono ingannare (ricorderete la storia del mezzo pollo a testa, secondo la statistica…). Nel 2016 il Pil italiano è stato pari a 1.672,438 miliardi di euro, per quest’anno – di “crescita” – dovrebbe arrivare a sfiorare i 1.700. Mentre il debito pubblico si aggira intorno ai 2.300 miliardi (2.280, secondo le stime più recenti).
Dunque ridurre questa montagna del 5,5% significa destinare oltre 120 miliardi di euro alla sola riduzione del debito. E’ chiaro che si tratta di una cifra che vale solo per il primo anno (riducendo il debito, la proporzione fissa si traduce in una cifra leggermente minore ogni anno). E’ vero anche che se l’economia cresce (il Pil aumenta), in proporzione il debito diminuisce. E’ vero anche che se l’inflazione riprende a salire, quel debito si riduce in proporzione (come sa ogni indebitato).
Ma ci tocca far notare che crescita economica e inflazione sono una possibilità, non una certezza. E anche la loro dimensione non può essere prevista oggi (se non, in parte, per l’anno prossimo). Al contrario, la riduzione del debito prevista dal Fiscal Compact – una volta ratificato – è obbligatoria, fissata in percentuale e non soggetta ad alcuna variabile “politica”. Questo significa che negli anni “buoni” (in cui si sommano crescita del Pil e dei prezzi) quella cifra spaventosa sarà leggermente più leggera, mentre negli anni “brutti” (un po’ di recessione e inflazione a zero) diventerà una pietra lanciata a chi sta già affogando.
Una regola “automatica” vincolante per qualsiasi governo, a prescindere dal “programma” per cui sono stati votati dagli ignari cittadini.
Di fatto, non sarà possibile mettere in campo nessuna politica economica ritagliata sulle esigenze del paese prima di aver rispettato l’impegno previsto dal Fiscal Comapct. Ma se lo si rispetta, l’unica politica possibile è taglia tutto.
Perché, allora, l’intera classe politica parlamentare finge di non accorgersi che da qui a poche settimane sarà chiamata a legarsi le mani per i prossimi 20 anni (se tutto va bene)?
Perché lo sanno benissimo. E non gliene frega niente. Le spese che andranno tagliate per ripagare il debito riguarderanno marginalmente le loro prerogative (qualche vitalizio in meno non cambierà di una virgola il quadro complessivo), mentre risulterà stravolgente la vita per tutti i dipendenti (presenti, passati e futuri; ossia lavoratori, pensionati e giovani, compresi i non ancora concepiti).
Non è un caso che l’intera classe politica attuale sia fatta di personaggi usa-e-getta, gente che non sa quasi nulla di quel che bisogna fare per governare, che non sarà più lì alla fine della prossima legislatura, che fuggirà altrove col bottino guadagnato nei pochi anni di arraffo (per alcuni basta già lo stipendio da parlamentare).
Certo, che taccia anche la cosiddetta “stampa libera”, quella che dovrebbe essere il “guardiano del potere”, ci risulta un po’ sorprendente. Ma in fondo sappiamo bene che si è trasformata in “voce del padrone”…
P.s. Vi chiederete: ma allora su cosa cercheranno di differenziarsi le diverse “forze politiche”? Beh, lo stanno già facendo da anni: alcune vi prometteranno più diritti civili e meno migranti, le altre zero migranti e meno diritti civili. Tutte, comunque, vi garantiranno “più sicurezza”. Ricordatevi però che, per loro, siete voi il nemico da cui guardarsi…
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