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Nel ghetto di Rignano, tra i moderni schiavi, ricordando Di Vittorio

Luigi Pintor – che non era un “bolscevico barricadiero” ma era, sicuramente, un acuto osservatore della società contemporanea – ripeteva soventemente che “ognuno di noi ogni mattina doveva baciare la terra in cui vive e ringraziare il fato di essere nato in Occidente”.

Questa paradigmatica frase mi è venuta in mente, sabato 4 novembre, nel cosiddetto ghetto di Rignano, a Foggia, mentre con una delegazione dell’Unione Sindacale di Base e della Federazione Sindacale Mondiale (WFTU) abbiamo incontrato le donne e gli uomini che animano questa autentica discarica umana. Un incontro poche ore prima di una importante, bella e partecipata assemblea che ha ricordato, a 60 anni dalla sua morte, la figura umana e politica di Giuseppe Di Vittorio.

Ho sempre percepito disagio per l’esistenza dei campi Rom, ho sempre stigmatizzato i provvedimenti repressivi che spesso, anche nella mia città, Napoli, le istituzioni hanno messo in atto contro questi insediamenti che si producono, come caratteristica strutturale di una metropoli imperialistica, nelle aree periferiche urbane.

Non credevo, però, che potesse sedimentarsi, a poca distanza delle nostre case e della nostra esistenza, questo vero e proprio inferno in terra costituito dal ghetto di Rignano il quale è paragonabile solo alle più disastrate favelas dei paesi del Sud del mondo. Ma, smentendo tanti luoghi comuni, a cui, spesso, inconsapevolmente, siamo abituati dalle narrazioni tossiche vigenti i compagni dell’USB ci raccontano di altre situazioni di questo tipo in Calabria ed in Basilicata dove sono in corso interessanti processi di sindacalizzazione e di aggregazione di questi lavoratori/schiavi.

A circa 15 kilometri da Foggia, attraverso strade sterrate e piene di buche, si giunge in questa landa ripiena di tonnellate di rifiuti (molti bruciati precedentemente e lasciati marcire alle intemperie) dove sono costruite miserabili baracche con pezzi di lamiera, di legno e masserizie varie accatastate alla rinfusa. Senza acqua corrente, senza luce elettrica, senza alcun bagno pubblico centinaia di esseri umani conducono la loro quotidiana esistenza scandita dai micidiali tempi della fatica semischiavistica che vige nei campi della zona e nella giravolta dei tempi di raccolta del ciclo dell’agricoltura nei vari territori del Mezzogiorno.

Tra sentieri di fango solidificato ed immersi in una nauseabonda puzza derivante dall’assenza di fogne e dalla putrescenza dei rifiuti gli immigrati tentano di dotare questa area di un minimo di “razionalità” attraverso alcune baracche che fungono da “negozio”, da “punto di ritrovo” e persino da sede sindacale, in questo caso quella dell’Unione Sindacale di Base che da circa due anni segue questa vicenda.

In questo terribile contesto George Mavrikos segretario internazionale del WFTU, Pierpaolo Leonardi dell’esecutivo nazionale dell’USB, Giorgio Cremaschi della Piattaforma Sociale Eurostop, Aboubakar Soumakoro dell’USB/Immigrati ed altri attivisti sindacali pugliesi e campani hanno incontrato gli immigrati che vivono nel ghetto poco prima dell’assemblea che nel pomeriggio si è svolta a Foggia per ricordare Giuseppe Di Vittorio ed attualizzare il suo pensiero e le lezioni politiche e sindacali della sua esperienza nella Capitanata, nel Meridione d’Italia e nel gorgo delle lotte sindacali degli anni ’50.

Abbiamo ricordato il sindacalista – ma anche il comunista – Giuseppe Di Vittorio non solo perché è stato il primo segretario della Federazione Sindacale Mondiale o per il suo enorme contributo nella battaglia per i diritti e l’emancipazione dei braccianti ma, soprattutto, per evidenziare il filo rosso teorico, politico e per tanti aspetti anche organizzativo tra quella fase storica del movimento sindacale e quella attuale.

Oggi nelle campagne del Sud Italia un esercito di immigrate ed immigrati si spacca la schiena senza diritti, con paghe di fame, senza nessun contributo e, spesso, sotto il controllo asfissiante della criminalità organizzata che, in numerosi casi, è parte integrante della filiera agro/alimentare italiana.

Una realtà oscura mediaticamente ma, tremendamente, riscontrabile per chiunque si affacci su questo spaccato sociale con buona pace delle patinate e mistificanti campagne pubblicitarie che accreditano una idea astratta e falsa su un mondo agricolo armonioso, bucolico e quasi mistico.

La realtà è fatta di ben altre caratteristiche e condizioni di vita. Super/sfruttamento, forme di caporalato e di vessazioni di ogni tipo, mortalità sul lavoro e pratiche ricattatorie e svalorizzanti della fatica umana sono il tratto distintivo della “modernità del capitale” nelle campagne, nell’agricoltura e nella pastorizia.

Questi immigrati sono gli eredi odierni di quei braccianti che – guidati dalla Cgil di Giuseppe Di Vittorio – che resistendo alla feroce repressione dei carabinieri e della polizia del ministro Scelba sconfissero il latifondo, gli agrari e rapporti feudali di produzione che vigevano in quel periodo. Una pagina memorabile della storia e delle mobilitazioni del movimento sindacale di classe nel nostro paese che rappresentò un fattore essenziale e costitutivo di quelle conquiste sociali e materiali che hanno, per tanti decenni, modificato positivamente progressivamente le condizioni di vita e di lavoro del proletariato tutto e dell’insieme dei ceti subalterni.

A distanza di 60 anni dalla morte di Giuseppe Di Vittorio nelle campagne del Sud Italia (ma anche nei magazzini e nei depositi del comparto della Logistica a Nord come al Sud) sono i proletari immigrati che incarnano i soggetti veri su cui si articolano le moderne forme dello sfruttamento capitalistico e quella complessa “Catena del Valore” contro cui occorre organizzare la lotta e l’attività a tutto campo di una nuova azione sindacale di classe adeguata alle caratteristiche della fase politica che attraversiamo ed alle continue modificazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro.

Ricordare Di Vittorio, il suo ruolo nel Sud Italia ma anche la sua proiezione internazionalista – segnata dalle funzioni che ricoprì nella Federazione Sindacale Mondiale all’indomani del secondo conflitto mondiale – non ha nulla di iconoclastico, di formale o di nostalgico ma è un esercizio utile per il presente.

Ricordare Di Vittorio, riprendere gli insegnamenti e la storia di un sindacalismo di classe lasciato cadere nell’oblio da una Cgil completamente compatibilizzata e da un riformismo sempre più parte attiva ed integrata della governance capitalistica è parte essenziale nel processo di costruzione di una forma sindacale conflittuale, modernamente confederale, meticcia ed internazionalista.

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