La sopravvissuta piccola parte di lavoratrici e lavoratori occupati nella residua industria savonese, falcidiata negli ultimi decenni dalla tragedia delle dismissioni e dei fallimenti più o meno “perfetti”, ha vissuto nella scorsa settimana episodi che possono ben essere definiti d’altri tempi: le maestranze di Mondomarine hanno occupato il cantiere, quelle della Piaggio hanno invaso la Città con un combattivo corteo. A questo quadro che può essere ben definito come “di lotta” si è aggiunto lo sciopero dei lavoratori portuali, categoria considerata un tempo quale nerbo vitale della classe operaia savonese.
Il pensiero è così tornato, per un attimo, agli anni’50, all’ILVA dai 3.500 donne e uomini impiegati nella siderurgia, alla lotta da essi sviluppata tra il ’49 e il ’55 per difendere (vanamente) l’integrità dell’impianto o alla Scarpa e Magnano, anche in questo caso tra gli anni’50 e l’inizio dei ’60 e a tante altre occasioni di tante e tante altre aziende e opifici, Balbontin, Fialette, ACNA di Cengio in eterna lotta tra ambiente e lavoro. Fino alla forma estrema dello sciopero della fame organizzato dagli operai della Fornicoke a metà degli anni’80
La Città, nel verificarsi di quei drammatici eventi di lotta, fornì sempre il massimo di solidarietà da parte di tutti i suoi ceti sociali; furono trascorsi Natali in Fabbrica, organizzate tante occasioni per alleviare – sia pure parzialmente – i grandi disagi che toccavano alle famiglie in una Savona effettivamente “operaia” che oggi, come ci è capitato tante volte di scrivere, ha perduto la propria identità senza ritrovarne una minimamente alternativa.
Non è questo però il punto dell’intervento.
Torniamo ai giorni dell’occupazione dei cantieri di Mondomarine: una crisi dovuta una squallida storia di speculazione intrecciata addirittura – solo casualmente almeno in apparenza – alla lotta di potere per la presidenza del Monte dei Paschi di Siena.
Ebbene in quei giorni (mentre si scrive questo testo sembra sia stato raggiunto un accordo sindacale per un “affitto” di 6 mesi attraverso il quale si spera di allontanare, almeno provvisoriamente, lo spettro della chiusura) stante appunto l’occupazione il giovane consigliere comunale di Rifondazione Comunista propose di effettuare una “colletta cittadina” per sostenere materialmente l’impegno dei lavoratori e le difficoltà che ne sarebbero derivate per la vita quotidiana delle loro famiglie.
Forse inconsapevolmente il giovane consigliere comunale proponeva , in sostanza, un vero e proprio “ritorno all’indietro”, com’ è purtroppo ormai nello spirito del tempo.
Non si tratta, infatti, di ritornare ai già più volte citati anni’50 del XX secolo ma addirittura ancora più all’indietro , alla fase cioè del passaggio dall’associazionismo mutualistico interclassista alla scoperta della lotta di classe.
Non si tratta, da parte nostra, della ricerca di una capziosa distinzione tra un periodo e l’altro, ma piuttosto di una non semplice definizione della natura dello scontro sociale oggi come allora.
Il tentativo, da parte nostra, è quello di recuperare indispensabili spezzoni di memoria della lotta del movimento operaio proprio per cercare di comprendere il punto di arretramento fin qui verificatosi nel corso dell’ultimo periodo.
La differenza con l’estesa solidarietà sociale che si dimostrava allora da parte delle categorie economiche, i commercianti (alle famiglie dei lavoratori in lotta era aperto il famoso “libretto”, nei negozi di generi alimentari:un conto aperto che poi sarebbe stato saldato al momento del rientro al lavoro), i semplici cittadini nel periodo degli anni’50, consisteva nella presenza alla direzione del movimento di lotta di un sindacato che si muoveva nel solco della concezione più alta della dimensione di classe.
E’ l’idea della dimensione di classe che oggi si è smarrito avendo il sindacato ormai perduto completamente questo filo rosso (salvo che nei sindacati di base alcuni dei quali però appaiono in difetto sul terreno della confederalità nascendo come “sindacati di categoria”) fin dall’epoca, almeno, della cosiddetta “concertazione”.
Torniamo allora alle origini, proprio allo scopo di recuperare la memoria.
Come si verificò il passaggio dal mutualismo alla resistenza e, di conseguenza, alla lotta di classe?
Il passaggio dal mutualismo alla resistenza fu lungo e difficile, avvenne attraverso tappe intermedie, simboleggiato dal sorgere della società di “miglioramento”, ma più in generale attraverso una trasformazione interna delle prime associazioni operaie, che presero col tempo ad affiancarsi al mutualismo anche il miglioramento e la resistenza.
Dopo l’abolizione delle corporazioni la Società di Mutuo Soccorso rappresentarono la prima forma dell’associazionismo operaio anche se non si poteva scorgere in esse un embrione dell’organizzazione di classe.
In quel tipo di società scriveva Gnocchi Viani (“Il Partito Operaio Italiano 1882 – 1885”) “l’operaio non è che un infermo da sussidiare, un invalido da pensionare, un cadavere da trasportare al cimitero; tutt’al più un testatore che lascia un piccolo sussidio agli orfani e alle vedove. Non vi figura mai come persona (uomo o donna) che vive e lavora, come persona che ha facoltà e forze da sviluppare, bisogni da soddisfare, diritti da rivendicare, come persona che insomma ha la dignità umana da tenere alta”.
Non stiamo forse ritornando a quell’epoca ?
Questa la domanda che ci si deve porre oggi, e sulla quale il movimento sindacale esistente dovrebbe riflettere attentamente : viviamo in tempi di precariato e di sfruttamento imperante a tutti i livelli nel mondo del lavoro (dai lavori più umili, come quelli assegnati ai migranti o a quelli “fintamente” manageriali: precariato e sfruttamento rappresentano il segno comune da riconoscere), di finanziarizzazione imperante, di utilizzo dell’innovazione tecnologica per sostituire arbitrariamente il lavoro vivo, di dilazione infinita e arbitraria nel pensionamento di lavoratrici e lavoratori anziani, di sottrazione concrete di diritti e di annullamento dello stato sociale.
Stiamo di nuovo davvero all’epoca in cui scriveva Gnocchi Viani, o forse è il caso di intrecciare ancora l’idea della dignità del lavoro con la dimensione, drammaticamente concreta nell’attualità, della lotta di classe.
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