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Il “vincolo esterno” è indifferente al governo che sarà

Ad elezioni terminate sono ormai un ricordo lontano i proclami eclatanti delle forze politiche premiate dal voto di protesta, quali la Lega e il M5S.

Già la notte della chiusura delle urne, infatti, erano rientrate le sirene antieuropeiste che avevano caratterizzato in passato le uscite televisive del partito di Grillo e di quella che un tempo era la Lega Nord. A campagna elettorale conclusa, i rispettivi leader Di Maio e Salvini si sono infatti affrettati a rilasciare interviste per tranquillizzare i partner e le autorità europee.

Questo cambio di atteggiamento conferma quello che osservatori attenti ed economisti sanno da tempo: con i vincoli attuali non è possibile rimanere all’interno del quadro unico europeo e contemporaneamente affermare di lottare per cambiarlo.

La scelta che si pone alle compagini politiche è giocoforza quello di accettare le regole europee o “uscire dal recinto”. Non ci sono vie di mezzo praticabili o almeno non se ne sono viste fino ad ora né se ne vedono all’orizzonte.

La Gabbia europea, infatti finora ha dimostrato di essere talmente salda da vanificare ogni tentativo di allentarne la morsa dall’interno. Lo ha capito bene anche Tsipras, che all’indomani del referendum in Grecia, ha disatteso il responso popolare nonostante i greci in massa, votando NO, avessero rispedito al mittente il piano proposto dai creditori internazionali per parte della Commissione europea, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale.

Ritornando al nostro Paese, i vincoli più stringenti con cui chi governerà dovrà fare i conti sono: il Patto di Stabilità e Crescita che sancisce l’impegno a perseguire l’obiettivo di medio termine di un saldo economico della amministrazioni pubbliche prossime al pareggio o in avanzo e il Fiscal Compact.

Già dal 2010 per far rispettare in maniera rigorosa il “Patto”, la Commissione europea aveva formulato una serie di misure che avrebbero fatto parte della “riforma della governance europea” e tra queste:

  • Il Six pack: costituito da cinque regolamenti e una direttiva U.e. per potenziare le procedura di sorveglianza sui bilanci dei paesi dell’eurozona.

  • Il Semestre Europeo: un ciclo di procedure volte ad assicurare un coordinamento preventivo delle politiche economiche.

  • Il Patto “euro plus”.

  • Il Trattato di Stabilità, comunemente noto come Fiscal Compact, entrato in vigore nel 2013 e che costituisce in pratica il nuovo Patto di Bilancio con cui gli stati U.e. si impegnano a perseguire la stabilità finanziaria. Più in dettaglio il Trattato sulla Stabilità ha imposto la “costituzionalizzazione” di norme vincolanti e in particolari di obblighi, quali: il perseguimento dell’attivo o al più del pareggio di Bilancio e per gli Stati con debito pubblico elevato come l’Italia un ulteriore obbligo di rientrare verso il tetto del 60% del Pil al ritmo di 1/20 l’anno per la parte eccedente.

  • Il Two Pack: composto da due regolamenti vigenti su tutta l’area euro.

Il punto “di non ritorno”, ossia l’addio ad ogni margine reale di autonomia in politica economica, è stato segnato però sicuramente, dall’introduzione del pareggio di Bilancio in Costituzione, con la riformulazione dell’articolo 81.

Infatti affermando che “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico” si è elevato a rango costituzionale la regola del pareggio di bilancio come voluto, appunto, dall’Europa.

Il tenore letterale della formulazione del comma sopracitato, infatti, se lascia allo Stato un certo margine di disimpegno nella fasi cicliche sfavorevoli, richiama subito all’ordine lo stesso nella fasi favorevoli, in cui dovranno emergere posizioni di avanzo.

Sempre l’art. 81 al comma 2, si rimarca poi come il consolidamento sia consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico. Si potrà far ricorso all’indebitamento solo in periodi di grave recessione economica che coinvolgano l’aera euro o l’intera U.E. e in caso di eventi straordinari, quali calamità naturali che turbino la situazione finanziaria del paese.

Tali eventi eccezionali sono da individuarsi, si noti bene, in coerenza con l’ordinamento dell’U.e.

Per far capire come diviene “straordinario” il ricorso all’indebitamento, basti pensare che lo stesso deve essere autorizzato dal Parlamento tramite una procedura “aggravata”, ossia una votazione a maggioranza assoluta dei componenti del massimo organo legislativo.

Inoltre deve essere esperita una procedura da parte del Governo che deve sentire la Commissione Europea, ancor prima di inviare al Parlamento una specifica richiesta di autorizzazione.

Al comma 3 dell’art. 81, poi si impone che “ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri finanziari deve provvedere i mezzi per farvi fronte”.

Per comprendere poi come pregnante sia l’influenza europea, basta osservare il Documento di Economia e Finanza che sicuramente è il maggiore strumento di programmazione “europea” nel nostro ordinamento.

Il D.e.f. viene elaborato tenendo conto delle linee guida del Consiglio Europeo, in cui sono indicati i principali obiettivi di politica economica per l’U.E. e l’area euro e le principali strategie di riforma per conseguire tali obiettivi. Dunque il massimo strumento economico del Governo, nemmeno tanto celatamente, mira ad assicurare la piena integrazione tra il ciclo di programmazione nazionale e il semestre europeo.

Due delle tre sezioni di cui si compone il D.e.f (il Programma di Stabilità e il Programma Nazionale di Riforma) oltre che al Parlamento vanno inviate alle autorità europee, entro la fine del mese di aprile.

Entro il 27 settembre poi il Governo presenta la Nota di aggiornamento al D.e.f con cui tra l’altro , si ci aggiorna gli obiettivi programmatici , in considerazione delle eventuali raccomandazioni approvate dal Consiglio dell’Unione Europea.

Potremmo far notte continuando a parlare delle misure e dei vincoli che ancorano la nostra contabilità pubblica a scelte e parametri di politica economica, ormai sovranazionali, ma il quadro di insieme a questo punto dovrebbe essere quanto meno intuibile anche ai meno esperti.

In sostanza Renzi o Gentiloni ieri e Salvini o Di Maio oggi, qualora siano nominati premier, avranno meno influenza sulla nostra politica economica di quanto non ne abbiano il Signor Draghi della B.C.E. o la Signora Lagarde del Fondo Monetario Internazionale.

E’ chiaro che politicamente, si può accettare di rimanere in questo quadro di insieme, come esplicitamente hanno fatto forze come centrodestra e centrosinistra oppure decidere di rompere con la Gabbia Europea orientandosi verso soluzioni alternative (indubbiamente complesse), collaborando con forze politiche di altri paesi dell’area euro che si propongano i medesimi obiettivi.

Ma tenere il piede nelle proverbiali “due staffe” è un gioco che non regge alla lunga.

Lo ha capito Tsipras e lo hanno capito finanche Di Maio e Salvini, bravi a sfruttare nei mesi scorsi in maniera demagogica le proteste in chiave antieuropeista per aumentare i propri consensi, salvo rientrare all’ovile, subito dopo ad elezioni concluse.

 

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