Le dichiarazioni del Ministro dei trasporti Toninelli rappresentano il primo indizio di cosa il governo gialloverde intenda fare di Alitalia, ma rievocare il mito della “compagnia di bandiera” o prospettare un 51% in mani italiane – senza far intendere con chiarezza se private o pubbliche – serve a poco.
La malattia che affligge da almeno 18 anni una dei più grandi presidi industriali italiani non si cura solo con i proclami (ci ricordiamo i patrioti di berlusconiana memoria), ma con un piano industriale che affronti le cause della malattia.
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Dal fallimento dell’alleanza con KLM che doveva portare alla nascita del 4° polo europeo, avvenuto il 1 maggio 1998, la storia di Alitalia è stato un inesorabile piano inclinato che l’ha portata alle attuali condizioni, come se le parole dell’allora commissario europeo ai trasporti Loyola De Palacio (“in Europa c’è spazio solo per 3 grandi compagnie”) ne avessero designato il destino.
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Per uscire dalla crisi provocata dalle torri gemelle del 2001, la strada scelta dall’A.D. Mengozzi (poi premiato con la Legione d’Onore) fu di allearsi con AirFrance, causando il progressivo ridimensionamento, la mancanza di investimenti sulla flotta di lungo raggio e sui sistemi manutentivi, la cessione del traffico pregiato all’alleato tramite i loro hub (prima Parigi, poi anche Amsterdam, dopo la fusione con KLM) e l’abnorme squilibrio della flotta sul M/R. Un mix micidiale al quale nessuna compagnia globale sarebbe potuta sopravvivere.
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Poi sono arrivate le complicazioni: alle ripetute crisi di Alitalia e i relativi piani di ridimensionamento è corrisposta la crescita impetuosa delle low cost dal 2005 in poi, che hanno approfittato delle praterie lasciate libere dalla compagnia, della situazione paradossale di mancanza di regole su tassazione e trattamenti personale, e anche dei contributi pubblici mascherati da “comarketing” che i piccoli aeroporti hanno elargito a piene mani.
La privazione di processi fondamentali come la manutenzione, a cui ne seguirono altri, mostrò a tutti i conti da pagare attraverso esternalizzazioni ed appalti costosissimi.
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Dopo Mengozzi, anche Cimoli operò esattamente in quella stessa direzione, acuendo il disastro. Tanto che i due furono condannati per distruzione di patrimonio aziendale in primo grado di giudizio del 2015.
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La prima privatizzazione di Berlusconi e i “capitani coraggiosi” fu un colossale fallimento, perché non toccò minimamente l’assetto completamente sbagliato dell’azienda, anzì ne acuì il disastro attraverso la fusione con AirOne di Carlo Toto, che portò in pancia leasing, debiti e contratti sbagliati.
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La seconda privatizzazione di Etihad e Renzi, nonostante i proclami, nonostante le risorse millantate dalla compagnia emiratina, si rivelò un altro colossale fallimento che peggiorò persino la situazione.
Quindi, qualsiasi idea il governo abbia per cambiare il destino di Alitalia e dei suoi 12.000 dipendenti superstiti (nel 2000 sfioravano le 20.000 unità) non è solo in quale percentuale rimarrà “italiana”, ma nell’ordine:
a) il piano flotta attraverso sia il corposo ingresso di aeromobili di L/R sia per il rinnovo abbandonando leasing fuori mercato e su nuovi modelli
b) il superamento oppure il forte allentamento dei vincoli imposti dagli alleati di skyteam sulle direttrici pregiate per il nord America.
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il recupero di processi fondamentali e ricchi come la manutenzione e l’information technology finora appaltati a costi esorbitanti.
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il mantenimento in house e l’ampliamento del proprio handling
e) una riforma del mercato del trasporto aereo che ricostruisca condizioni di concorrenza leale, che finora sono clamorosamente mancate e affronti il tema del sistema aeroportuale.
Questa roba non costa poco, anzi almeno due miliardi di euro, e non c’è nessun operatore privato esterno (perché quelli sono) che venga qua a fare il bene di Alitalia e dei suoi lavoratori a scapito del suo mercato. Perché al capezzale della ex compagnia di bandiera hanno banchettato in tanti, di compagnie major o low cost degli altri paesi, in un mercato che in meno di 10 anni è passato da 134 milioni di pax del 2007 ai 171 milioni del 2017.
In fondo l’Italia è il paese a peggiore connessione intercontinentale e continua a perdere posizioni nel ranking turistico mondiale e miliardi di euro di relativi introiti fiscali
Questi investimenti, e l’interesse a muoverli, chi li può fare se non lo Stato per il proprio bene? E non ci venissero più a raccontare la storiella dei contribuenti tartassati di Alitalia, perché avrebbero piena ragione se non fosse per un dettaglio: è costato molto di più alla collettività “finanziare i licenziamenti” di quanto avrebbe fatto il rilancio industriale e lasciare la gente al proprio posto di lavoro.
Ecco perché le parole di Toninelli non convincono; non perché non segnino finalmente il cambio di direzione atteso rispetto al governo Gentiloni e a Calenda, ma perché è giusto che si facciano parlare i fatti reali e le idee concrete, non più proclami che lasciano il tempo che trovano.
Aspettiamo dunque la convocazione per comprendere meglio i contorni dell’operazione e valutare se alle parole seguirà il deciso cambio di rotta che aspettiamo da 18 anni.
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Andrea
Da ricordare poi la scientifica penalizzazione dell’Areoporto di Fiumicino e delle rotte internazionali su Roma per favorire l’inutile areoporto di Malpensa, creatura milanocentrica del duo Craxi-Pillitteri e da sempre nel cuore dell’asse Formigoni-Berlusconi-Tremonti-Pd
Antonio Chialastri
Concordo. Articolo scritto in modo molto efficace. Purtroppo la cosa più dura è convincere l’opinione pubblica della verità di queste affermazioni. Gli imprenditori italiani e stranieri che hanno sostituito lo Stato hanno gestito molto peggio. Con lo Stato alla cloche, la compagnia fatturava quasi 5 miliardi di euro, dava lavoro a 20000 persone e perdeva 350 milioni l’anno. I privati fatturavano la metà e perdevano il doppio, lasciando a casa quasi 10000 dipendenti.
Non è una questione ideologica. E’ semplice matematica.