Proviamo a stabilire alcune coordinate per orizzontarci nei prossimi nove mesi (da qui alle elezioni europee), perché altrimenti si fa politica come dei sordociechi.
Partiamo dall’Italia per comodità e ricchezza di informazioni (la stampa italiana, sulle questioni internazionali, ha alzato da tempo bandiera bianca, e tace su quasi tutto ciò che è rilevante).
Il governo grillin-leghista è entrato in rotta di collisione con l’Unione Europea, l’establishment ordoliberale che la guida da trentanni e, in parte ancora da quantificare, anche con “i mercati”. La scelta di provare a mantenere fede ad alcune delle promesse elettorali, sia pure in versione “mini” e facilmente smontabile , ha obbligato l’esecutivo ad alzare le previsioni di deficit ben oltre i margini di “flessibilità” sempre contrattabili con la Commissione.
E’ bastato un colloquio riservato tra Mario Draghi e Sergio Mattarella a convincere – primo fra tutti il ministro dell’economia, Tria – a ridurre drasticamente le previsioni deficit per gli anni successivi (dal 2,4% fisso a un più accomodante percorso discendente, dal 2,4 all’1,8%). Contemporaneamente, però, per rendere meno incredibili gli stanziamenti di spesa – tra investimenti e “mance elettorali” – ha dovuto innalzare le previsioni di crescita economica a livelli fantasiosi, praticamente il doppio di quanto previsto da tutti gli istituti internazionali specializzati.
L’Unione Europea ha a sua volta scelto di aprire il fuoco immediatamente. La lettera di Moscovici e Dombrovskis è arrivata sul tavolo del governo quasi in tempo reale, nel giro di 24 ore. Neanche il tempo necessario a leggere la “Nota aggiuntiva al Documento di economia e finanza”, appena inviata a Bruxelles… “Il Def a prima vista sembra costituire una deviazione significativa dal percorso di bilancio indicato dal Consiglio Ue, il che è motivo di seria preoccupazione”.
Nel linguaggio schematizzato delle procedure diplomatiche “preoccupazione” significa “pericolo grave”, e quindi equivale a una segnale di via libera per la speculazione finanziaria sui titoli di Stato italiani, da scatenare già domani, alla riapertura dei mercati.
Uno schiaffo di queste dimensioni non poteva essere subìto dai due “vicepremier dal linguaggio sconcio” (definizione del presidente della Commissione, Jean.Claude Juncker) senza perdere immediatamente la faccia. E dunque la risposta è stata altrettanto velenosa: “diciamoci la verità questa Europa qui, tra sei mesi è finita. Tra sei mesi ci sono le elezioni europee e come c’è stato un terremoto politico in Italia il 4 marzo, ci sarà un terremoto politico alle elezioni europee di maggio“.
Abbiamo voluto riportare integralmente le frasi di Di Maio perché, forse per la prima volta, in mezzo a tante chiacchiere subito smentite da altre, ha colto un dato politico vero, che ancora sfugge a qualche “europeista di sinistra”. Comunque la si pensi, infatti, non c’è alcun dubbio che la geografia politica europea uscirà profondamente stravolta dal voto di fine maggio. Le destre nazionaliste avranno purtroppo un rappresentanza molto superiore a quella che hanno ora, riducendo fortemente l’antica grosse koalition liberale (tra Partito popolare e “socialista”). Il cuore di questo pilastro è stato fin qui l’”asse franco-tedesco”, che però si appresta a questo appuntamento con gli equilibri sottosopra. La Germania rischia di mandare a Strasburgo un’overdose di deputati simil-nazisti, mentre la Francia – stando ai sondaggi – difficilmente ridarà all’ex banchiere Macron il consenso di un anno e mezzo fa.
A quel punto diversi paesi con un governo nazionalista (di sicuro Austria, Ungheria, Polonia, Cechia, Slovacchia, i paesi baltici, oltre a quello che ci ritroviamo noi) condizioneranno molto più pesantemente le decisioni delle varie istituzioni “intergovernative” (Consiglio europeo, Eurogruppo, Ecofin, ecc), oltre a pesare negativamente sul comunque impotente Parlamento europeo.
Lo schemino blindato che ha guidato fin qui il processo di integrazione non avrebbe più alcuna “scorrevolezza”, e ogni organismo europeo sarà esposto a uno choc anafilattico.
Avremo davanti, insomma, “un’altra Europa”. Altrettanto neoliberista, più chiaramente composta di egoismi nazionali ora “sconci e maleducati” (invece che eleganti e salottieri), altrettanto nemica dei popoli, ma ferocemente determinata a far finta “curare” il malessere sociale crescente con robustissime iniezioni di xenofobia. Che non serve a risolvere alcuna crisi economica, ma fornisce temporaneo consenso a una classe politica che non può agire più su nessuna leva. Se non alzando l’indebitamento, e dunque l’esposizione agli attacchi dei “mercati”.
Per fortuna, ripetiamo spesso, questi due blocchi – nazionalisti liberisti e europeisti ordoliberisti – non sono gli unici in campo. C’è “qualcosa di sinistra” che si va collegando, a partire dalla Dichiarazione di Lisbona (tra France Insoumise, Podemos e Bloco de Esquerra), cui ha aderito Potere al Popolo e sta attirando i tedeschi di Aufstehen (l’ala Lafontaine-Wagenknecht della Linke), i greci di Sinistra Popolare e altri partiti progressisti di diversi paesi minori. Se non ci fosse stata la Brexit, probabilmente anche i neo-socialisti di Corbyn sarebbero stati della partita.
E’ però questo un fronte assai diverso dalla solita e nebulosa “sinistra radicale”, perché assume la critica all’Unione Europea come elemento costitutivo della propria azione in difesa dei ceti popolari. Del resto, è evidente anche ad un cieco che se non si può fare – secondo la Ue – neanche un’elemosina ridicola come l’annunciato “reddito di cittadinanza” (in realtà una “tessera annonaria” come ai tempi di guerra), figuriamoci cosa potrebbe accadere a quei paesi che eleggessero un governo davvero popolare e quindi antagonista al liberismo imperante…
Questo scenario ormai concreto, davanti ai nostri occhi, spazza via qualsiasi pretesa di fare “quarti poli”. Ce ne possono essere soltanto tre, con ogni evidenza (per chi ama le vecchia parole: sono le classiche destra, centro e sinistra). L’idea del “quarto” è uno strabismo solo italiano, per la presenza dei Cinque Stelle, che hanno fin qui ingloriosamente raccolto il malcontento che – in Italia – non poteva proprio più rivolgersi verso quella che veniva chiamata “sinistra” e accomunava (secondo i media e agli occhi della popolazione) da Renzi agli ex Dc, da Bersani ai vendoliani, da Casini a Rifondazione e anche oltre.
L’esperienza di governo spingerà in Europa decisamente a destra anche il Movimento 5 Stelle (del resto l’avevano già tentato gemellandosi con l’inglese Farage).
“A sinistra” resterà insomma soltanto da scegliere: a) seguire la strada al fianco degli altri movimenti europei che premono per una revisione così drastica dei trattati europei da prevedere un “piano B” che prende in considerazione anche la “rottura” di questa costruzione antidemocratica; oppure b) essere l’aletta “di sinistra” di un agglomerato informe che va “da Macron a Tsipras”, pervicacemente schierato a difesa degli interessi dei “mercati” e del potere intangibile della tecnoburocrazia di Bruxelles.
Il resto sono illusioni, abbagli, speranze vaghe. Nulla che serve a far lucidamente politica. E tantomeno una politica di classe. Al di sotto delle tensioni intorno a Potere al Popolo non ci sono tanto le tensioni “statutarie”, in fondo, quanto la prospettiva politica da assumere subito, con forza e decisione.
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