In questi giorni si fa un gran parlare di foto di campi profughi libanesi spacciati per le casette dei terremotati di Amatrice sotto la neve.
È evidentemente – per usare un termine molto di moda – una bufala utile ad alimentare propaganda razzistissima e scrivere amenità tipo «gli immigrati negli hotel e i terremotati nelle tende». Le questioni sono evidentemente slegate tra loro, a meno che questo governo non stia pensando di affidare i terremotati ai valdesi.
Ma davvero si può considerare la neve d’inverno sugli Appennini come una notizia? Il problema giornalistico, almeno per chi pensa che la cronaca sia una cosa seria, è che siamo al terzo inverno dopo il terremoto e potremmo tutti tranquillamente ripubblicare i pezzi dell’anno scorso o di due anni fa, cambiando giusto qualche dettaglio qua e là. E infatti in giro impazzano servizi sui disagi nei villaggi di Sae, sull’abbandono, sul commerciante che chiude perché nessuno entra nel suo negozio, sugli allevatori costretti a mungere a mano le mucche, sui cali di corrente, eccetera eccetera eccetera. Non è un giudizio negativo il mio, figuriamoci, anche io ho fatto recentemente un paio di servizi così, perché bisogna raccontare quello che succede, sempre e comunque.
Il problema è che quello dei terremotati non è un problema giornalistico. E lo dico da cronista, cioè da persona che grazie a ‘sta roba ci mette insieme il pranzo con la cena. Non si può ridurre il terremoto a guerra di propaganda tra opposte fazioni, tra un selfie e una giustificazione, perché se «quelli di prima» non hanno fatto niente, «quelli di adesso» in sette mesi sono riusciti nella straordinaria impresa di peggiorare le cose.
Il problema è politico, e non nasce oggi, né ieri, né è davvero nato la notte del 24 agosto del 2016. È dagli anni ‘80 che tutti si sono convinti del fatto che la società non esista, ma esistano soltanto gli individui e le loro famiglie. Quindi l’abbandono delle zone terremotate non è legato solo alle condizioni effettivamente difficili in cui decine di migliaia di persone devono vivere. L’abbandono è una strategia, come dice Leonardo Animali, nel senso che nessuno, proprio nessuno, punta davvero sulla rinascita di queste zone.
Una notizia: sull’Appennino ci nevicava anche prima del terremoto, ed era un disastro lo stesso. Un’altra notizia: queste zone erano in crisi già da prima del terremoto, e adesso il processo di svuotamento (demografico, culturale, sociale) sta soltanto andando più veloce. Un’ultima notizia: quando sono stati costruiti i villaggi per i terremotati, nessuno ha pensato a fare centri di aggregazione o simili; ci hanno dovuto pensare i privati a farlo, ed è meglio non chiedersi il perché di tanta generosità. E guardate che un paese non è soltanto un mucchio di case in cui la gente va a dormire, ma anche un vissuto che si è sviluppato nel tempo e che procede o dovrebbe procedere grazie a una comunità che si muove e si incontra tutti i giorni.
Viviamo in un paese in cui la società è negata, in cui la politica è un eterno tentativo di mettere gli ultimi contro i penultimi per raccattare quattro voti in vista delle elezioni, in cui la soluzione dei problemi è sempre contabile (ci sono i soldi o non ci sono i soldi) ma mai culturale: avete mai sentito qualcuno parlare di come sarà l’Appennino tra venti, trenta o cinquant’anni? No. Perché nessuno crede davvero che esisterà ancora qualcosa sull’Appennino tra venti, trenta o cinquant’anni.
[La foto è di Michele Massetani, è stata scattata a Muccia (Mc) poco prima di Natale. E sì, già nevicava]
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