Il Reddito ed in particolare il modo in cui si distribuisce tra i cittadini, costituisce il più importante indicatore del modello sociale che si sta consolidando nel nostro paese a forte impronta neoliberale. E’ sul reddito che si inscrivono tutte le disuguaglianze economiche e sociali che attraversano le nostre vite: scontiamo in Europa uno dei più alti indici di concentrazione di ricchezza nelle mani di un piccolo gruppo elitario.
Ai motori delle disuguaglianze economiche (in primis, la crescita smisurata del potere del capitale sul lavoro) di ordine sovranazionale e globale, le politiche governative nazionali non hanno posto alcun freno e l’ingiustizia sociale, in pieno smantellamento del Welfare, costituisce il primo tratto distintivo del modello sociale che si sta affermando.
Nell’impianto discorsivo a supporto di un nuovo welfare vi è il licenziamento di quello che fu il welfare pubblico ormai incapace di rispondere adeguatamente ad una domanda sociale sempre più ampia e variegata, a fronte di risorse economiche sempre più esigue.
Attraverso termini seduttivi: smart, innovativo, comunitario, circolare ecc, avanza un nuovo welfare capace di rispondere alla penuria delle risorse economiche destinate alla spesa sociale, con l’ingresso di investimenti privati e di nuovi strumenti finanziari (si pensi al riguardo alla finanza d’impatto sociale).
Traghetta così nell’immaginario collettivo la certezza che l’unica via di uscita per rispondere ai bisogni sociali in modo efficace ed efficiente sia data dall’ingresso di una “finanza buona”, di un privato (si pensi alle fondazioni bancarie o alle grandi centrali cooperative) che inietta i paradigmi del mercato all’interno del welfare.1 Non basta. Il mix pubblico-privato – altro tratto distintivo del nuovo modello – si estende soprattutto alla gestione dei servizi pubblici, alimentando così quel profitto dei privati (senza rischi di impresa) che sottrae risorse economiche destinate alla popolazione più fragile: sono a rischio di povertà ed esclusione sociale il 29% della popolazione italiana. Il 20,3% è a rischio di povertà e dunque ha un reddito inferiore al 60% del reddito mediano nazionale; il 10,1% vive in grave deprivazione materiale e l’8,4% dell’intera popolazione è povero perché a bassa intensità lavorativa.
L’avanzare della “società degli espulsi” dal lavoro, dalla casa, dalla salute, dall’istruzione è al contempo accompagnata da dispositivi sempre più repressivi nei confronti del dissenso collettivo ed individuale nella logica di disciplinare e punire chi si oppone ai nuovi paradigmi e ad un welfare che, seppellito il principio dell’accesso universale a condizioni di vita dignitose per tutti i cittadini, lo sostituisce con: l’universalismo selettivo . Ossimoro quest’ultimo che legittima la cosiddetta “guerra tra i poveri” per accedere ad un diritto (casa, salute, educazione) selezionando tra i più deboli di reddito – mediante criteri sempre più rigidi e numerosi – chi possa accedere ad una casa, ad un dispositivo di protezione contro la povertà ecc.
Entra così a pieno titolo un altro paradigma, mutuato dal mercato: la competitività tra gli ultimi della piramide sociale. Ai pochi fortunati che riescono ad accedere a quel beneficio di protezione sociale, lo Stato impone la condizionalità, cioè un insieme di comportamenti di “attivazione” che il beneficiario è tenuto ad osservare. Si tratta di un passaggio chiave: dal welfare al workfare sottendendo due assunti: 1) il beneficiario è colpevole della propria condizione di svantaggio poiché non è stato capace di essere efficacemente competitivo sul mercato; b) lo Stato (creditore) interviene a sostegno del cittadino (debitore) ma alla sola condizione che quest’ultimo “restituisca” quanto dovuto osservando pedissequamente l’insieme di azioni previste in un contratto: il patto di servizio.
Insomma, a quelle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, all’esclusione economica e sociale che ormai mette a rischio quasi 1 cittadino su 3, la dimensione politica – posta la scelta di non rimuovere le cause dell’impoverimento economico e sociale (precarizzazione del lavoro, abbassamento dei salari, abbassamento dell’intensità di lavoro, dissoluzione del welfare) – risponde con le famigerate “politiche attive” che attraversano i dispostivi del sociale e del lavoro2.
Questo cambiamento di paradigma che attraversa le misure di contrasto alla povertà e alla inoccupazione è stato inaugurato con il Jobs Act (con particolare riferimento al decreto legislativo 150/2015) e con il Reddito di inclusione3 ( REI). Il modello di intervento, definito di “attivazione” ossia, di disciplinamento del soggetto (disoccupato e/o povero), fortemente sostenuto dalla CE4 e ampiamente collaudato nel resto d’Europa, se pur inaugurato da Renzi-Gentiloni, date le scarse risorse economiche appostate sull’attuazione, non ha mostrato appieno la direzione di questo cambiamento.
Al contrario, Il Reddito di cittadinanza (RDC) – stante le bozze di dispositivo che circolano dopo la legge di bilancio – costituisce l’attuazione più pedissequa di quanto previsto dal Jobs Act (in tema di politiche del lavoro) in combinato disposto con il REI (in tema di contrasto alla povertà), oltre a sostanziare quel cambio di paradigmi su cui si sta ridefinendo il nuovo modello sociale.
In tema di redistribuzione del reddito, l’impianto originario del RDC intendeva intervenire su tutti coloro che disponevano di un reddito al di sotto del 60% del reddito mediano nazionale. Costoro ammontano al 15,6% (9 milioni e 368 mila individui) della popolazione italiana ( i poveri relativi) secondo il modello di calcolo di Istat della povertà relativa, e al 20,3%5 in base al sistema di calcolo di Eurostat (persone a rischio di povertà). I famosi 780 euro mensili (9.360 euro annui) rappresentavano proprio quell’asticella sotto la quale si individuavano tutti i possibili beneficiari. Stante le stime di Istat, la misura avrebbe richiesto un appostamento di circa 15 miliardi e avrebbe impattato sulla redistribuzione del reddito in modo significativo: “La disuguaglianza si riduce di quasi 2 punti secondo l’indice di Gini, che passa dallo 0,300 allo 0,282. Per questo tipo di indicatore, si tratta di una variazione significativa”6.
Il nuovo dispositivo, su cui sono stati appostate meno della metà delle risorse necessarie per ridurre in modo significativo le disuguaglianze, opera una profonda contrazione dei potenziali beneficiari attraverso un sistema di criteri altamente selettivi che riduce la platea a poco meno di 5 milioni di popolazione (universalismo selettivo) operando un’importante selettività tra gli immigrati (10 anni di residenza continuativa) e dimezzando così la loro partecipazione ai benefici della misura: i poveri stranieri costituiscono il 35% dei poveri, quelli che potranno accedervi saranno il 18% del totale.
Incorporando ampiamente i due dispostivi prima citati, il RDC assume a riferimento il nucleo familiare (non è una misura individuale) prevedendo che il beneficio economico sia condizionato all’osservanza di una serie di azioni (da parte di tutti i componenti del nucleo), come sottoscritto nel Patto per il lavoro con i Centri per L’impiego (nel caso in cui il problema sia di natura occupazionale) o nel Patto per l’inclusione sociale con i servizi sociali, qualora il nucleo familiare sia portatore di problematicità multidimensionali.
Inoltre, ciò che sembra evidenziarsi nelle bozze di dispositivo è un ulteriore irrigidimento e ampliamento della condizionalità e dunque, di quei comportamenti che l’intero nucleo familiare è tenuto ad osservare, quale prova della sua attivazione7, pena la decadenza del beneficio economico. Al presidio/controllo di questa attivazione concorrono più soggetti ed in primis, i Centri per l’impiego.
Al netto di tutti i dettagli inquietanti della misura (compresa la reclusione da 1 a 6 anni in caso di dichiarazioni non rispondenti al vero), urge invece sottolineare che anche il principio del mix pubblico-privato nella gestione dei Servizi pubblici entra a pieno titolo nell’RDC. Infatti, accanto ai Centri pubblici per l’impiego, troviamo le Agenzie private accreditate così come gli enti bilaterali, i fondi interprofessionali per la formazione continua, gli enti di formazione professionale accreditati ed infine, i CAF per l’avvio delle richieste.
Infine, in perfetta continuità con i governi precedenti, viene confermata anche la politica di incentivi economici alle imprese per favorire l’occupazione dei destinatari dell’RDC, già fortemente alimentata dai precedenti governi Renzi-Gentiloni: lo sgravio contributivo (di importo pari alla differenza tra i 18 mesi di durata dell’RC e le mensilità già godute dal destinatario prima dell’assunzione).
Insomma, siamo in piena attuazione del Jobs Act e il reddito di cittadinanza costituisce il banco di prova di quel workfare che i governi di centro-sinistra avevano lasciato incompiuto. Inaccettabile la critica mossagli dall’attuale opposizione e da quei sindacati confederali che hanno ampiamente sostenuto sia il decreto legislativo 150/2015 (politica attiva del lavoro) sia il REI, attraverso il cartello di “Alleanza contro la povertà.
Nell’attesa di conoscere il testo definitivo, le critiche al dispositivo vanno in ben altra direzione di quella tracciata dalle elites di questo paese.
Il reddito di cittadinanza non è una misura di redistribuzione della ricchezza, ne’ tanto meno una misura che libera la persona dal ricatto della precarietà e dal lavoro povero. Agisce in termini di riduzione del disagio per quelle famiglie che versano in condizioni di povertà severa ma solo alla condizione di una profonda sudditanza . Non rimuove un solo fattore che ha determinato le profonde disuguaglianze economiche e sociali che solcano le vite di milioni di persone, specie se giovani, donne, migranti e residenti a sud del paese. Un’altra occasione mancata che avrebbe avuto ben altro effetto se fosse stato affiancato almeno da quel salario minimo legale come prevedeva il dispositivo originale.
Nella distorsione informativa che ha accompagnato questa misura e quelle che l’hanno proceduta (su cui da tempo la nostra federazione è impegnata a disvelarne il vero senso) è oggi importante ribadire che la miseria non è una scelta di vita di chi ne è vittima bensì la colpa di uno Stato che ha smesso di proteggerci dalle disuguaglianze, in nome della giustizia sociale.
1 Il modello, evidentemente condito di tanta retorica, è già stato ampiamente sperimentato in Gran Bretagna, trova in CE veri e propri gruppi di lavoro tecnici a cui ha partecipato attivamente l’Italia. La finanza d’impatto è promossa in Italia dalla human fondation
2 Ken Loach offre una denuncia di questo modello nel film “Io, Daniel Blacke”
4 “politiche in materia di reddito minimo come strumento per combattere la povertà”
5 Istat: “ condizioni di vita, Reddito e carico fiscale delle famiglie”, 2017
6 https://www.istat.it/it/files/2015/06/A-TESTO-AUDIZIONE-REDDITO-DI-CITTADINANZA.pdf
7 fino a dover accettare un’offerta di lavoro congrua anche gli oltre 250 km dalla propria residenza
* Federazione del Sociale/Usb
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