E’ vero che molto spesso abbiamo la sensazione che tra la realtà dei fatti e la percezione distorta della realtà prevalga la seconda. Il sociologo Filippo Viola ha dedicato a questo un libro/ricerca straordinario dedicato proprio alla “Società astratta” in cui evidenziava, anche con una inchiesta empirica, come la gente si orientasse, posizionasse o dividesse sui parametri di una società astratta, appunto, invece che su quelli della società reale in cui avvengono concretamente le cose che ne cambiano la condizione e l’esistenza.
Una verifica di questa divaricazione tra percezione e realtà l’abbiamo fatta anche noi. A cavallo tra la fine e l’inizio del secolo, abbiamo realizzato quella che viene definita “inchiesta di classe” tra le lavoratrici e i lavoratori italiani sulla loro soggettività, cioè su come valutassero le loro condizioni materiali e quello che gli stava accadendo intorno (dalla flessibilità alle privatizzazioni all’unificazione europea etc.).
Nei risultati di quella inchiesta condotta con più di 1400 questionari raccolti in decine di luoghi di lavoro e pubblicata da Cestes (“La coscienza di Cipputi”), c’erano anche due domande/risposte che ci aiutano nella discussione che stiamo facendo oggi. Alla domanda su cosa lavoratrici e lavoratori pensassero dell’unificazione europea, la risposta è stata positiva quasi in modo plebiscitario. Alla fine degli anni ‘90 erano del resto tutti europeisti, senza se e senza ma. Alla domanda successiva su quali fossero le conseguenze del Trattato di Maastricht (in vigore da sette anni, dal 1992), la maggioranza ha risposto invece che erano negative. Una contraddizione fin troppo evidente tra la nostra gente su quella che era la realtà percepita positivamente (l’unificazione europea) e le sue conseguenze materiali (le dolorose politiche antipopolari imposte dal Trattato di Maastricht).
Quando il 6 aprile dello scorso anno abbiamo depositato in Corte di Cassazione il testo della proposta di legge di indirizzo costituzionale che consentisse il referendum sull’adesione dell’Italia ai Trattati europei, abbiamo valutato che ci fossero due spazi politici aperti:
1) il primo è che dopo le elezioni del 4 marzo, in Parlamento per la prima volta c’era una maggioranza non appiattita sull’europeismo liberale. Una condizione inimmaginabile in tutto il venticinquennio precedente. I risultati ci hanno restituito una situazione ben diversa. Le roboanti dichiarazioni no euro e contro le imposizioni della Commissione europea dei due partiti di maggioranza (M5S e Lega), sono capitolate alla prima verifica sulla Legge di Stabilità. E’ scattato il pilota automatico della Bce/Commissione, e il governo ha abbassato la testa come fece Tsipras nonostante l’esito del referendum sull’Oxi nel 2015. Lo spazio di opportunità che si era aperto per la battaglia tesa a introdurre la possibilità del referendum sui Trattati europei si è così richiuso nel giro di nove mesi.
2) Il secondo è il fatto che tra il 1992 e il 2016 in ben nove paesi dell’Unione Europea ci sono stati quindici referendum in cui la popolazione è stata chiamata ad esprimersi sui Trattati europei, e in nove casi su quindici la società ha detto NO. Dal giugno 1992 in Danimarca al giugno 2016 in Gran Bretagna, passando per il No di Francia e Olanda nel 2005 alla Costituzione europea e all’Oxi della Grecia del 2015, lì dove c’è stata la possibilità di svolgere dei referendum sui vincoli imposti dalla Ue, la gente ha potuto discutere pubblicamente e decidere politicamente se continuare a rimanere dentro la gabbia dei trattati o meno. Nei paesi più martoriati dai diktat della Ue – i Pigs come Italia, Spagna, Portogallo, a eccezione della Grecia – non è mai stato possibile sottoporre ad una verifica democratica e popolare l’adesione o meno ai Trattati europei. Solo la Spagna ha potuto tenere nel lontano 1986 un referendum sull’adesione alla Nato nello stesso momento in cui, contestualmente, entrava a far parte della futura Unione Europea (ma questo l’onorevole economista Borghi lo ignorava ed ha fatto una figura barbina, ndr).
Non solo. E’ decisivo sottolineare come nel punto di apice dell’ultima fase della crisi (2010), gli apparati europei abbiamo avviato una impressionante escalation di trattati sempre più vincolanti e restrittivi. I loro nomi sono spesso sconosciuti ma i loro effetti sono pesanti: Two Pack, Six Pack, Mes, Fiscal Compact etc. In ogni passaggio i vincoli del “pilota automatico” sono diventati più pesanti e impediscono ogni dissonanza in materia economica e sociale per i governi imbrigliati nella gabbia dei Trattati. Lo abbiamo visto in Grecia e lo abbiamo visto anche con l’attuale governo italiano, che alla fine è capitolato ed ha dovuto fare un gioco a somma zero sulle poste del bilancio per provare a modificare qualcosa su pensioni e reddito di cittadinanza. Le conseguenze di questo le vedremo nel prossimo autunno con la nuova Legge di Stabilità che dovrà fare i conti con le micidiali “clausole di salvaguardia” imposte dalla Ue e con una stagnazione economica che incide pesantemente sui parametri previsti dai Trattati europei.
Dunque la nostra battaglia per ottenere la possibilità che anche in Italia si possa sottoporre a referendum l’adesione o meno ai Trattati europei, si poggia su basi concrete, aspettative legittime e una visione democratica e di classe.
Infine, torniamo dalla questione da cui siamo partiti. I fatti contano o conta solo la loro percezione astratta o imposta da mass media, conformismo politico e senso comune tra la gente? Le difficoltà che abbiamo incontrato nella raccolta delle firme per strada o nei luoghi di lavoro sulle nostre proposte di legge per il referendum e sull’art.81, sono state relative alla “paura del salto nel buio” della gente rispetto ad una eventuale uscita dall’Unione Europea ma soprattutto dall’Eurozona. Nonostante molti abbiamo verificato il peggioramento delle loro condizioni di vita, dei salari, dei diritti sul lavoro, negli standard del welfare dovuti direttamente ai vincoli dei Trattati europei, l’idea che questo meccanismo vada rotto per impostare le priorità sociali su altri parametri, ancora risente del terrorismo psicologico diffuso dall’establishment e veicolato anche dalle paure della sinistra nel dire le cose come stanno.
Eppure i fatti sono lì a dimostrare che quanto sosteniamo è vero e non campato per aria. Recentemente il rapporto di un centro studi tedesco, il Center for European Policy, ha quantificato il peggioramento materiale della popolazione italiana dovuto all’adesione alla moneta unica. Si parla di 73mila euro in meno a persona nel periodo che va dal 1999 al 2017. Subito si è messo in moto il meccanismo del killeraggio politico/mediatico teso a liquidare questo rapporto come inattendibile e manipolato dagli euroscettici. Ma poi si è scoperto che il board di questo centro studi è composto da europeisti tedeschi che hanno avuto funzione dirigenti negli apparati europei, solo per fare qualche nome ci troviamo Bolkestein, Tietmayer, Jurgen Stark etc. Insomma è proprio impossibile ascriverli al mondo degli euroscettici, sono quelli che hanno fatto la moneta unica e le direttive più infami dell’Unione Europea. Ed anche la quantificazione di quanto ogni famiglia ha perso con l’adozione dell’euro non deve sorprendere.
Infatti è difficile dimenticare l’intervista del 1992 del ministro Andreatta (lo stesso che nel 1981 volle la separazione della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro che fece esplodere il debito pubblico, ndr). In quella intervista che spiegava il perché della manovra finanziaria “lacrime e sangue” del governo Amato nel 1992, Andreatta rivendicava chiaramente che “il reddito delle famiglie italiane doveva diminuire di 5 milioni di lire l’anno”. Cinque milioni di lire sono più o meno 2500 euro di oggi, fatevi i calcoli e vedrete che la quantificazione delle perdite dovute all’adozione dell’euro fatta dal Centro studi tedesco sono praticamente sovrapponibili.
In conclusione. Abbiamo provato un primo “assalto” sul piano politico con l’obiettivo dell’introduzione del referendum sui Trattati europei e abbiamo fatto bene. Adesso dobbiamo insistere, non dobbiamo assolutamente abbassare il tiro, dobbiamo incalzare tutti – sia le forze di governo che quelle di opposizione – sulle ambiguità e l’opportunismo su questa palese subalternità alla gabbia dei Trattati europei che impedisce ogni alternativa al disastro sociale, economico e democratico esistente. Adesso vediamo quando potremo consegnare le firme e fare l’incontro con la Presidenza della Camera dei Deputati per porre politicamente tale questione. Ma alla prima occasione dobbiamo tornare alla carica, a tutto campo e con estrema determinazione, soprattutto tra la nostra gente, nel nostro blocco sociale di riferimento senza perdere troppo tempo nei “cenacoli della sinistra”.
Infine, visto che siamo alla vigilia delle elezioni europee, dobbiamo respingere con forza quella che Le Monde Diplomatique ha definito giustamente come “ingannevole contrapposizione” tra il mondo di Macròn e quello di Orban,Salvini etc. Non sono diversi né contrapposti, sono le due facce della stessa medaglia e dobbiamo combatterli entrambi, apertamente.
* intervento al convegno di Roma su referendum sui trattati europei e abrogazione art.81 organizzato da Usb ed Eurostop: “E adesso ne discuta il Parlamento e il paese”.
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