Dal 2 al 4 agosto a Niscemi, si terrà il Campeggio Resistente del Movimento No Muos che da anni si batte contro la militarizzazione del territorio e contro la guerra. Il movimento No Nuos ha elaborato un documento da discutere al campeggio. Lo pubblichiamo volentieri.
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La guerra negli ultimi anni sta diventando una realtà concreta. Una guerra che rischia di svilupparsi su scala globale, come alcuni osservatori stanno notando, e che potrebbe coinvolgere diversi attori della scena internazionale. Molti fattori ci indicano come la tendenza a una guerra globale si stia facendo sempre più marcata e ormai, con cadenza quasi mensile, si verificano incidenti diplomatico-militari che rischiano di diventare dei casus belli da cui fare partire il tutto. Tra questi indicatori il più evidente è l’incremento della spesa militare a livello mondiale. Se, come è sempre stato storicamente, le guerre si preparano e non scoppiano all’improvviso, allora è conseguenziale pensare che gli attori globali si stiano preparando a questa eventualità, rendendosi responsabili di attentati all’ambiente, delle attuali e future emigrazioni forzate e, infine, dell’arricchimento dei signori internazionali della guerra, vere e proprie mafie globali.
La rincorsa agli armamenti ha conosciuto delle notevoli trasformazioni dall’89 in poi. Non siamo più di fronte a un mondo bipolare che usa lo strumento della militarizzazione anche come forma di deterrenza reciproca. Gli attori in competizione sono aumentati, è venuta meno quella configurazione geopolitica mondiale che ha caratterizzato la seconda metà del ‘900, e la competizione globale conosciuta prima come “globalizzazione”, con una forte guida USA, adesso si sta trasformando in una nuova competizione tra potenze imperialiste e subimperialiste o aspiranti tali.
La crisi economica del 1973, pur cercando una via d’uscita di lungo periodo, non ha trovato sbocchi soddisfacenti, passando attraverso la finanziarizzazione dell’economia. La crisi finanziaria del 2006-08 ha confermato l’estrema labilità di questa soluzione e oggi il capitalismo si trova di fronte a una crisi che non permette più agli investimenti gli stessi tassi di profitto del passato (la c.d. crisi di valorizzazione del capitale). Per provare a superare tale crisi, si è fatto ricorso alle fusioni di aziende e alla creazione dei grandi gruppi oltre che all’intervento massiccio negli Stati delle politiche economiche neoliberiste. La nascita delle multinazionali e il loro stretto collegarsi col mondo finanziario rispondono a questa logica.
Nel nostro paese, per fare un esempio lampante, la FIAT si è trasformata in un gruppo industriale e finanziario, la FCA, in cui gli introiti finanziari subordinano progressivamente quelli industriali, un processo inevitabile in un mondo in cui il 40% delle auto prodotte rimane invenduto. Questa crisi di sovrapproduzione, in cui il capitalismo non riesce più a scorgere nuove frontiere oltre le quali allargare i propri mercati e che ha visto emergere nuove potenze industriali, si declina in una ancor più sfrenata competizione su scala globale che ha smesso i panni della competizione “pacifica” (la cosiddetta “globalizzazione”) e tende oggi a riproporre, accanto alla nuova minaccia della guerra valutaria, i vecchi schemi del protezionismo e della guerra commerciale.
La fine del WTO, da un punto di vista commerciale, e del G7 dall’altro, segnano la crisi dell’ordine post-sovietico. La competizione valutaria tra dollaro e euro prima, e tra queste e le monete virtuali, rappresenta un altro segnale della palese tendenza alla guerra che sta attraversando la scena internazionale, per la quale i concorrenti extra-occidentali, con capofila la Cina, si stanno attrezzando. Si profila a questo punto un mondo multipolare, dove ad essere messa in discussione sarà soprattutto l’egemonia statunitense.
In questo scenario di crisi di profittabilità a cui il capitalismo non ha ancora trovato una soluzione, come nelle crisi strutturali del 1870 e del 1929 che portarono prima alla spartizione del mondo e poi alla guerra, è possibile parlare di crisi sistemica, cioè una crisi strutturale senza altra via d’uscita che non possa essere la guerra.
Non è un caso che l’attore più attivo sul campo militare siano gli Stati Uniti, che hanno addirittura abbandonato il trattato di non proliferazione nucleare. Non è un caso che il protagonismo di Trump abbia più volte sfiorato l’incidente diplomatico con Corea, Venezuela e da ultimo l’Iran.
In questo scenario che possiamo definire prebellico, la Sicilia – ma non solo – si trova ad essere al centro delle manovre USA nel Mediterraneo con lo sguardo rivolto verso oriente, da quello più vicino a quello più lontano.
La militarizzazione della Sicilia, con le trasformazioni organizzative di Sigonella, l’implementazione del MUOS e del Porto di Augusta, passando dai droni killer ai sottomarini nucleari, consegna la nostra regione alle necessità strutturali della guerra, sia come territorio da sfruttare e organizzare secondo le esigenze belliche della NATO sia come possibile bersaglio militare in eventuali, e sempre più plausibili, scenari di guerra globale.
Sviluppo diseguale, sfruttamento della natura ed emigrazione
Se la Sicilia è dentro le dinamiche della competizione economica globale come dominio militare degli USA, il territorio siciliano (e non solo) è anche al centro di logiche speculative e di sfruttamento capitalistico di un
certo tipo. Da sempre nel nostro Paese, come in tutti i paesi a capitalismo avanzato, la borghesia, dagli Agnelli ai Benetton, ha approfittato dello Stato e dei suoi beni per fare affari, qualificandosi come classe parassitaria che ricorre allo Stato in termini di Profite state. Ma se l’evoluzione della competizione capitalistica negli ultimi anni ha trasformato le grandi famiglie industriali in soggetti internazionali, altri soggetti rimangono ancora legati a una dimensione nazionale, che ne accentua il modello di valorizzazione in senso estrattivo o di sfruttamento intensivo della manodopera. Si tratta di forme di sfruttamento del territorio e dei beni pubblici, cui si ricorre tramite privatizzazioni, assegnazioni di appalti più o meno truccati, bandi per grandi opere che generano profitti anche solo con l’avvio della progettazione (come vorrebbero accadesse con il Ponte sullo Stretto), o tutto il campo dell’agricoltura che vive di lavoro nero e della manodopera immigrata.
Se queste sono le logiche di sfruttamento della natura e del lavoro, più intense quanto più agguerrita è la lotta per la sopravvivenza dentro gli scenari di crisi e di competizione, ci poniamo il problema di come poter reggere lo scontro con questi comitati d’affari che lucrano sulla pelle e la salute delle persone, siano esse italiane o no, ma che sicuramente vivono una condizione di subalternità sia in termini sociali che economici. Comitati d’affari portati spesso a inscenare rivendicazioni di maggiore autonomia o sovranità su fette di territorio ricche per soddisfare la propria posizione di privilegio all’interno del dominio globale del capitale.
In questo senso abbiamo dato avvio in questo anno a una riflessione che ha messo in relazione Guerra, Migrazione e sfruttamento della Natura, che ha segnato un primo punto di arrivo nel convegno che si è tenuto a Catania nel mese di giugno 2019.
Il capitalismo è dunque fondato su un doppio movimento sempre finalizzato all’incessante accumulazione di capitali. Da una parte la necessità di appropriarsi di risorse naturali sempre più scarse e dall’altra il bisogno di nuovi mercati spingono infatti all’intensificarsi della competizione mondiale nella ricerca di nuove frontiere da conquistare e sfruttare. Tale sfrenata competizione palesa quindi non solo la tendenza alla guerra sopra descritta, ma anche la radicalizzazione dei processi di devastazione ambientale necessari all’appropriazione di risorse e all’allargamento dei mercati. Ciò ha chiaramente delle pesantissime ricadute sia sulla salute delle persone che su quella dell’ecosistema, oltre a porsi quale causa principale delle emigrazioni di massa, prodotte appunto dalla distruzione dell’equilibrio geofisico del nostro pianeta e dall’esplodere di conflitti bellici.
Riannodare i fili delle lotte
Come Movimento No Muos stiamo cercando di capire come superare la parcellizzazione delle lotte cui siamo stati ridotti negli ultimi decenni, complice anche una narrazione che si è imposta in gran parte dei movimenti, che ha reputato meglio fare qualcosa, ma farlo “nel proprio piccolo”, ma che comunque ha rappresentato una linea di resistenza a fronte di una crisi generale dei movimenti politici eredi degli anni settanta e di una scomparsa di soggetti politici dediti alla mediazione. Finché questo genere di lotte ha sviluppato grandi movimenti popolari (dai No TAV fino ai No MUOS) questa frammentazione ha potuto celarsi dietro la legittima attesa dei movimenti di opporre una sana resistenza popolare al modello di sfruttamento del territorio. Ma quando, per ragioni diverse ma ricorsive, i movimenti popolari tendono ad assottigliarsi, fino ad estinguersi come in alcuni casi, emerge la precarietà di una soluzione politica basata sul modello “Ninby” (Not in my back yard) e sulla difficoltà/incapacità di individuare i trait-d’union tra aspetti parziali e specifici e tra questi e il contesto generale.
Senza voler proporre soluzioni politiche unitarie, crediamo ci sia il bisogno di leggere le dinamiche di fondo per trovare punti di raccordo per le nostre lotte e provare a costruire un fronte unitario di lotta. Con questo documento vogliamo offrire alle realtà sparse nel nostro territorio (come punto di avvio) uno spunto di ragionamento aperto e franco, senza chiaramente volerci offrire come guida per nessuno. Sentiamo la necessità di unire i ragionamenti e di conseguenza le lotte, pur salvaguardando le specificità e l’autonomia di azione di ognuna di esse.
In questo tentativo, invitiamo le realtà a porsi su un terreno di confronto aperto e pratico provando a rispondere alle seguenti domande che saranno oggetto dell’assemblea che si terrà al campeggio No Muos il 3 agosto.
1) Quali sono gli strumenti teorici per leggere il fenomeno di sfruttamento capitalistico del territorio in cui si svolge la nostra lotta? Come invertirne la logica e contrastarne gli interessi?
2) Crediamo che il modello di sfruttamento individuato nella nostra realtà sia possibile estenderlo ad altre?
3) Che relazione troviamo tra il modello di sfruttamento capitalistico locale e gli scenari di competizione globale vigenti?
4) Pensiamo che la tendenza alla guerra sia un problema secondario subordinato rispetto alle lotte territoriali portate avanti?
5) Pensiamo che sia possibile trovare forme di lotta e obiettivi comuni per superare la frammentazione delle lotte? E se sì, quali?
6) Riteniamo utile una forma stabile di coordinamento tra le diverse realtà?
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