La politica italiana si prepara a cambiare ancora una volta pelle, mentre ancora non si è consolidato il nuovo assetto.
Una delle forze cosiddette “populiste” – i Cinque Stelle – sono già stati ricondotti all’ovile dell’establishment “europeista” e confindustriale. Non è stato poi troppo difficile, vista l’inconsistenza strategia della visione grillina, e dunque del “realismo” delle parole d’ordine lanciate per anni.
Ora tocca alla Lega. Il successo alle elezioni europee aveva dato alla testa a Mr. Mojito, che aveva creduto di poter passeggiare sulle rovine delle altre forze politiche e imporre una volontà politica corrispondente agli interessi della piccola-media impresa, soprattutto del Nord.
La pochezza del leader maximo, grande comunicatore ma scarso come stratega, ha trasformato quel successo in un flop da guinness dei primati, riuscendo a perdere una partita che era già stata ampiamente vinta.
Quegli interessi e quel bacino di consensi va perciò “re-indirizzato” in maniera politicamente produttiva, ossia come consenso a politiche decise a Bruxelles ma che coprono vasti interessi anche nazionali e locali (imprese, banche, costruttori, ecc).
Ma c’è un ma. La Lega di Salvini ha assuno toni e modi da partitino fasciorazzista, “anti-europeista” sul piano della propaganda e per nulla su quello concreto (stando al governo aveva accettato tutti i diktat sulla “legge di stabilità”, senza fiatare), raccogliendo malcontento popolare e dandogli una “narrazione” persino realistica (i “poteri forti”, i “burocrati”, “gli zero virgola”, ecc) e dunque poco compatibile con quella indispenabila a governare insieme e per conto di quei poteri.
Dunque è necessaria una svolta. All’interno della Lega. Con o meglio senza Salvini, ma senza strappi o accelerazioni che potrebbero distruggere in tempi rapidissimi un dispositivo che ha mostrato di funzionare e quindi può tornare molto utile a chi saprebbe che farne.
Il primo passo ufficiale in questa direzione lo ha fatto, non a caso, il più scaltro dei leghisti della prima ora. Placidamente seduto a colloquio con l’”arci-nemica” Lucia Annunziata, Giancarlo Giorgetti se n’è uscito con una dichiarazione che suona quasi come un’eresia: “La Lega nel Ppe? Non lo escluderei a priori. Con la Csu bavarese, ad esempio, ci sono molti elementi di consonanza”.
In effetti bisogna rileggere o risentire la frase molte volte, perché abbiamo tutti le orecchie piene del bla-bla salviniano con Macron e la Merkel (capo indiscusso dei democristiani europei e dunque anche del Ppe), contro il “complotto” che sarebbe stato ordito ai piani alti di Bruxelles per togliersi dalle scatole – ossia dal governo in Italia – un “matto” impresentabile e neanche troppo capace.
Ma il dado, come si dice, è tratto. La Lega i deve ri-convertire in una forza affidabile, se vuole avere ambizioni di governo. Deve spuntare le asprezze fasciorazziste e farsi “normale” partito reazionario ma perbenista. Deve smetterla di indicare l’Unione Europea come causa di molti dei problemi italiani e farsi guidare su questa strada da chi ha il controllo della situazione.
In fondo, non c’è nulla di sorprendente. E’ quello che ha fatto fin dall’inizio il più simile dei “fratellini” europei di Salvini, ossia quel Viktor Orbàn che l’iscrizione al Partito Popolare Europeo l’ha fatta prima ancora di vincere le elezioni in casa e che, pur facendo da punta del “gruppo di Visegrad”, è da sempreben attento a non pesstare i piedi della Germania. Il che, per un paese contoterzista dell’industria tedesca, sarebbe come spuare nel piatto dove mangia.
Ma anche la Lega rappresenta in parga parte lo stesso milieu, ossia le piccole-medie imprese che lavorano e producono su commesse dell’industria tedesca.
La retorica anti-europea va bene se devi annegare migranti in mare, non quando si parla d’affari da fare in Europa. Insomma, puoi pure essere molto reazionario, ma in modo più democristiano…
Giorgetti ha capito l’antifona, Salvini ha ballato una sola estate…
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