Ovvero, come continuare ad avere i salari più bassi d’europa
Nella Nota di aggiornamento al nuovo DEF (Documento di economia e finanza) a pagina 85, nella sezione Mercato del lavoro, politiche attive del lavoro e politiche sociali, si legge che “[…] il Governo individuerà l’equo compenso per i lavoratori non dipendenti, al fine di evitare forme di abuso e di sfruttamento, in particolare a danno dei giovani professionisti, e interverrà per limitare il fenomeno delle cosiddette ‘false partite Iva’”.
Cosa vuol dire ”equo compenso”? Nel DEF si parla di “lavoratori non dipendenti“, mentre è scomparso dal testo qualsiasi riferimento al “salario minimo” e non vi si fa più alcun riferimento ai salari e, di conseguenza, ai lavoratori dipendenti.
Eppure, in Europa 22 stati su 28 prevedono il salario minimo, unica misura in grado di contrastare efficacemente il fenomeno dei working poor. Ma perché in Italia non lo si vuole introdurre?
Innanzitutto si sono messe di traverso le organizzazioni sindacali tradizionali che vedrebbero indebolirsi di molto il proprio potere contrattuale. Poi, il governo dice e scrive di puntare “a realizzare l’efficacia erga omnes dei contratti mediante la previsione contenuta in un altro punto del DEF […] di sostenere l’intervento di regolazione della rappresentanza sindacale e datoriale realizzato mediante la disciplina di indici rigorosi di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni dei lavoratori e delle imprese”. Di buone intenzioni sono lastricate le strade dell’inferno.
D’altronde, il patto siglato da CGIL, CISL e UIL e Confindustria, il 19 settembre scorso va, in tutt’altra direzione e con l’avvento del nuovo governo giallorosè, si respira un’aria di nuova concertazione, ovvero, un bel ritorno a ciò che, in buona sostanza, ha causato una progressiva caduta dei salari dal fatidico: lo storico accordo sul costo del lavoro del 1993 firmato da Cgil-Cisl-Uil, Confindustria e il Governo Ciampi, che poi non fu altro che il completamento della svolta dell’Eur, con la definitiva cancellazione della scala mobile e l’ancoraggio dei futuri aumenti contrattuali all’”aumento della produttività”.
Un accordo che diede l’avvio ad una sfrenata corsa, da parte dei padroni, all’intensificazione selvaggia dei tassi di sfruttamento ed al crollo verticale di salari e stipendi. In obbedienza allo spirito del trattato di Maastricht, appena sottoscritto dal governo precedente (Andreotti) a Camere sciolte.
La cancellazione dell’art. 18 dello Statuto del lavoratori, il Jobs Act e lo smantellamento del welfare svenduto alle assicurazioni private hanno fatto il resto ed hanno portato i lavoratori italiani prossimi ad una condizione di semi-schiavitù e ad avere il triste primato delle retribuzioni più basse dell’Europa occidentale.
Va subito chiarito che un larga fetta dei CCNL firmati da Cgil, Cisl e Uil in questi anni si colloca al di sotto dei minimi proposti, cioè della soglia di 9 euro l’ora. Un salario minimo per legge sopra quella soglia provocherebbe un effetto rialzo dei salari per milioni di lavoratori, con un effetto a catena inevitabile anche su tutti i livelli salariali, non solo su chi sta al minimo. Tuttavia la banda del nuovo “patto sociale” non ha nessuna intenzione di perseguire davvero un rialzo dei salari.
Sono contrari sia i sindacati “maggiormente rappresentativi” che quelli che firmano i contratti pirata. L’importante per loro è che i salari restino bassi. E gli argomenti risuonati al tavolo della nuova pace sociale rimandano a questa rinnovata unità di intenti: le imprese non possono sostenere questi rialzi. E si sa che, a parte qualche lodevole eccezione, la maggior parte delle imprese italiane è ben lungi dall’avere mai puntato su innovazione e ricerca, avendo sempre preferito la tradizionale ricetta padronale all’italiana: bassi salari e costante aumento dei tassi di sfruttamento.
Confindustria e CGIL, CISL e UIL ripetono da mesi all’unisono: “Nessun salario minimo per legge: basta la contrattazione collettiva” .
Secondo il loro ragionamento la contrattazione collettiva è una tutela sufficiente, mentre un salario minimo previsto per legge è “improponibile poiché, nel caso in cui fosse inferiore a quello stabilito dai contratti collettivi ne provocherebbe la disapplicazione e, nel caso in cui fosse più alto, si creerebbe uno squilibrio nella rinegoziazione degli aumenti salariali con incrementi del costo del lavoro non giustificati dall’andamento dell’azienda o del settore”. Per dirla con Corrado Guzzanti, la seconda che hai detto.
Il lavoro deve restare una variabile dipendente dal capitale e, se il ciclo è negativo per i profitti, la crisi devono pagarla i lavoratori con stipendi da fame, precarietà, insicurezza e ritmi di lavoro feroci.
La domanda però è: per quanto tempo ancora i lavoratori italiani possono continuare a vivere con questi salari da fame?
Una cosa è certa: a fronte di una crescita clamorosa del lavoro povero e di una condizione generale di impoverimento che riguarda ormai una fetta larghissima di popolazione, sindacati(complici), Confindustria, centrosinistra e Lega sono tutti uniti contro i lavoratori.
E la CGIL di Landini? Certo, sono passati 30 anni da quando Bruno Trentin lanciò un messaggio quasi disperato all’Assemblea di Chianciano del 1989 nella quale, pose con forza il tema di come fare sindacato in un mondo del lavoro che si frammentava e si personalizzava. Trentin aveva chiaro che di fronte alla frammentazione sociale che attraversava il mondo del lavoro e la società intera non era possibile limitarsi a difendere “il fortino”, ma occorreva aprirsi alle nuove soggettività lontane dai modi tradizionali in cui il sindacato pensava se stesso e le sue regole di rappresentanza ed alle nuove forme del lavoro precario e “flessibile”.
Un’angoscia, la sua(testimoniata dai diari recentemente pubblicati) nel constatare come fosse difficile cambiare la Cgil a fronte dei grandi mutamenti che stavano palesandosi già allora e davanti ai quali la sinistra politica stava perdendo ogni capacità di leggere ed interpretare le nuove dinamiche sociali, già ammaliata dai miti della modernizzazione dell’innovazione tecnologica ed incatenata all’imperativo della governabilità a tutti i costi.
E come ci ricordò non molto tempo fa, durante una delle sue immancabili rassegne stampe mattutine, lo storico e mai tanto compianto direttore di Radio Radicale Massimo Bordin, quando, una volta, chiesero a Trentin cosa ne pensasse della storica dicotomia legge sul salario minimo-contrattazione, rispose secco: “Cosa importa se un miglioramento per i lavoratori sia introdotto da una legge o dalla contrattazione? Ciò che è importante è ottenere quel miglioramento. La contrattazione non è un mito.”.
Ecco.
per approfondimenti:
https://jacobinitalia.it/il-salario-minimo-per-passare-al-contrattacco/
https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=976651289348016&id=620314614981687
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa