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Rabbia social e “piazze dell’amore”: dobbiamo davvero smettere di odiare?

Nelle ultime settimane si è parlato moltissimo dell’idea che in Italia esistono due culture, una dell’odio e una dell’amore, di quale debba prevalere e di come fare in modo che prevalga.

Si è parlato anche tanto di campagne di educazione all’uso dei social, penso a #odiareticosta, promossa, tra gli altri, da Michela Murgia. I due discorsi spesso si incrociano e l’idea è che gli “odiatori” seriali vadano educati, anche attraverso sanzioni pecuniarie.

Vi premetto che quando anche io, nel mio piccolissimo, in momenti di particolare esposizione, sono stata tormentata da gente che non aveva di meglio da fare che rompermi il cazzo sul mio aspetto fisico, sul mio accento o che addirittura millantava di avere mie foto “scandalose” da pubblicare in rete (a proposito, caro, le sto ancora aspettando, eh), mi sono parecchio seccata.

Premetto pure, se ce ne fosse bisogno, che quando leggo atrocità in giro sui campi di sterminio che erano una specie di colonia estiva, sugli immigrati che devono diventare pasto per i pesci o su Cucchi che se l’è andata a cercare mi saltano i nervi, e non poco.

Credo che i social siano uno strumento potentissimo, molto più potente di quanto chi scrive una di queste boiate e poi preme il tasto invio possa pensare. E che come ogni strumento potente non possa essere usato come se fossimo dei sonnambuli, in uno stato di incoscienza, ma che invece sia necessaria una riflessione collettiva e un’educazione collettiva – che passa per l’estensione, l’allenamento della nostra immaginazione sulla conseguenza delle nostre azioni.

A volte lo sviluppo di questi strumenti va più veloce della nostra possibilità o capacità di riflettere su di essi e questo crea un circolo vizioso pericolosissimo. Se poi aggiungiamo che, come ci mostrano le statistiche dell’OCSE pubblicate ieri, abbiamo grosse difficoltà a leggere, comprendere e rielaborare un testo, allora capiamo che il problema è grosso come un elefante.

Insomma, la situazione sembra questa: c’è un dilagare di odio, strumenti e figure (anche istituzionali!) potenti che lo diffondono e che spesso se ne servono. La più naturale conseguenza di tutto ciò sembra la necessità di costruire una “cultura dell’amore”.

Lo abbiamo sentito spesso nelle piazze delle sardine degli ultimi giorni e ci è sembrata una cosa bella. Lo è, non fraintendetemi. Ma c’è qualcosa che non va, perché non esistono risposte semplici a fenomeni complicati, non esistono scorciatoie. Perché noi siamo fatti di amore, ma anche di odio. Di cose e persone che amiamo e di altre che sentiamo come nemiche. Perché ci hanno tolto qualcosa, perché ci hanno fatto del male, perché il loro stile di vita ci rimanda all’inadeguatezza del nostro – e non sempre basta sforzarsi per cambiare le cose, come predicano tanti guru del web, ma “uno su mille ce la fa”.

I social non sono lo specchio della società, però qualcosa ci dicono e forse sarebbe utile restare in ascolto. Sull’Espresso (vi giro qui sotto le pag.) è uscita una piccola inchiesta su chi sono gli odiatori in rete, vi faccio un riassunto un po’ brutale: sono dei poveracci o persone la cui condizione economica è cambiata radicalmente a causa della Crisi, non è gente semplicemente frustrata perché “di carattere è fatta così”.

Odio digitale e disagio sociale vanno di pari passo.

Hanno scelto un modo stupido per incanalare la loro rabbia, siamo d’accordo, diventano gli utili idioti di chi la cavalca, d’accordissimo, ma quella rabbia c’è e non potrà scomparire né a colpi di denunce né di inni all’amore.

E se i bersagli sono il ne*ro, il terrone, il fr*cio e lo zingaro è perché io quelli là li vedo, sono presenti in carne ed ossa davanti a me e qualcuno mi ha suggerito che è proprio colpa loro se non ho casa, se sono in fila da ore per una visita medica che ho aspettato per mesi, se mi hanno licenziato. Non basta però dire che quelli non c’entrano niente, che non è lo straniero ad averti “rubato” il lavoro, la casa, il futuro. Anche perchè il FATTO che ho bisogno di arrivare a fine mese, che vivo in una periferia di merda, che voglio una pensione non da fame e una stabilità sociale, resta.

Bisognerebbe provare – e qui sta la parte difficile – a rendere visibile chi davvero mi ha messo in quella condizione.

Perché di qualcuno da odiare ne abbiamo bisogno tutti.

Non facciamo gli ipocriti o i freakkettoni (e comunque anche i figli dei fiori odiavano i politici che avevano fatto della loro generazione carne da macello per la guerra in Vietnam).

Chi dice che dobbiamo promuovere una cultura dell’amore ignora, o finge di ignorare, che l’amore incondizionato è fatto per i martiri o per chi se lo può permettere. Invece esiste un amore che possiamo provare tutti, se ci educhiamo, se lo costruiamo: quello per chi si trova in condizioni simili alle nostre. E un odio che è una risorsa sana e buona, quello che mette in evidenza, che rende chiaro che c’è qualcuno che, per primo, ci ha odiato, togliendoci il diritto ad avere un futuro decente.

“Odio mosso d’amore”, cantava il poeta, “è un fatto di appartenenza”.

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3 Commenti


  • Manlio Padovan

    Io odio profondamente i cacciatori di dollari.
    Odio ugualmente, ma con minore intensità, poco minore, i ricchi e i super ricchi soprattutto quelli che la ricchezza e la superricchezza la vanno sempre cercando…e torniamo ai cacciatori di dollari.


  • ALBERTO GABRIELE

    Brrava Viola!


  • lamberto dolce

    D’accodo su tutto compagna Viola, mi viene in mente quando in Italia girava la voce che il termine nemico di classe doveva essere bandito, lo chideva la CGIL alle assemblee di lavoratori perchè era politicamente scorretto. Credo che oltre ad un opportunismo politico ci sia anche un discreta ignoranza sulla conoscenza antropologica di noi umani, specie quando ci troviamo come ora in una situazione di masse sempre più abbruttite da un sistema che si propone come unico. Uno sfruttato, un discriminato, violentato, schiavizzato come può praticare l’amore, scelta che io auspico al futuro di ogni vivente di questo pianeta, senza averne mai conosciuto nemmeno l’ombra.

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