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L’Italia in quarantena, anzi no…

Alla fine, dopo oltre 15 giorni, il governo ha scoperto che quella da coronavirus è un’epidemia seria. Ma non sa bene cosa fare, a leggere le misure che ha preso…

Separiamo le cose, in modo da renderle un po’ più chiare.

Sul piano dell’”emergenza sanitaria”, e quindi del contenimento del contagio, ha preso le indicazioni del comitato tecnico-scientifico, diramando una serie di “consigli” a tutta la popolazione nazionale. E quindi:

– gli anziani farebbero meglio a rimanere a casa, se over 75 anni, mentre gli over 65 – molti dei quali obbligati ad andare al lavoro, causa legge Fornero – possono anche uscire, ma solo se sono senza febbre o altri malanni di una certa gravità;

– negli incontri sarebbe meglio salutarsi mantenendo almeno un metro di distanza da tutti gli altri (la prima indicazione diceva “2 metri”, ma a quel punto si sarebbe dovuta ordinare subito la chiusura di tutte le scuole, uffici, ecc), evitando quindi tutti i contatti fisici non necessari;

– chi ha la febbre deve rimanere in casa, evitando quindi il rischio di seminare in giro l’eventuale infezione, attendendo le analisi specialistiche;

– evitare i luoghi affollati;

– manifestazioni sportive solo a porte chiuse, senza spettatori, ma «Sarà la Lega calcio a decidere se giocare a porte chiuse o rinviare le partite»;

– rinvio di convegni, congressi, ecc, che si dovevano svolgere in luoghi chiusi, proprio perché non si potrebbe rispattare la distanza di almeno un metro;

– vietato accompagnare persone nei Pronto soccorso e si limiteranno gli accessi nelle cliniche private e negli ospizi;

Per il momento queste disposizioni, certamente restrittive della vita relazionale, saranno applicate per 30 giorni. L’obbiettivo dichiarato è evitare la saturazione degli ospedali pubblici, visto che le strutture indispensabili per i casi gravi di infezione polmonare (respirazione artificiale, rianimazione, ecc) sono molto limitate in seguito alla drastica riduzione dei posti letto, dopo oltre venti anni di tagli alla spesa sanitaria. Ma non si prevede affatto di invertire la tendenza alla privatizzazione, anche se proprio l’epidemia ne dimostra la follia suicida…

Lampante l’incongruenza principale: queste disposizioni non valgono per i luoghi di lavoro, indipendentemente dal fatto che si possa, al loro interno, mantenere o no la “distanza minima di sicurezza”. Quarantena sì, però…

Il che ci porta subito sul secondo aspetto dei provvedimenti governativi: l’economia reale.

Il terrore è che l’impatto sul Pil sia talmente negativo da mandare all’aria non solo i parametri di Maastricht (queso è scontato…), ma ogni prospettiva di “ripresa” per diversi anni.

Ed è su questo fronte che le prime misure appaiono manifestamente insufficienti. Sul piano della logica prima ancora che per le dimensioni delle risorse messe immediatamente in campo.

Di fronte a un crollo generalizzato delle attività anche più piccole (dal turismo alla ristorazione, ecc), di fonte ai primi allarmi per la difficoltà a mantenere le forniture necessarie a lavorare (nel mondo globale le “catene del valore” sono molto più interconnesse, e ogni interruzione in un singolo punto si ripercuote su tutta la filiera), il governo Conte mette in campo “robetta”. Come se si trattasse solo di “stimolare” un po’ di più un mercato momentaneamente “pigro”.

Vediamole.

Ecobonus dal 65% al 100%, potenziamento del piano Impresa 4.0 e nuova rottamazione auto”. Al di là della dimensione delle risorse, ripetiamo, il 90% dei settori economici non avrà alcun beneficio da questa roba. Che riproduce la logica degli “incentivi”, ossia di strumenti che puntano ad aumentare l’appetibilità di alcune scelte di investimento o di spesa.

Ma a che servono, in una situazione che si va invece bloccando? Se, per esempio, non esco più di casa, anche disponendo di cifre rilevanti, perché mai dovrei mettermi a ristrutturare casa per sfruttare l’ecobonus? E una società italiana che opera all’estero, perché mai dovrebbe spostare qui i suoi impianti e uffici in questa situazione? Solo per aver qualche incentivo in più dai fondi di Impresa 4.0? Eccetera.

Ancora più ridicolo: ma se posso uscire di casa solo per necessità impellenti o per lavorare, perché mai dovrei pensare a cambiare l’automobile?

Una classe politica indecente e impresentabile si vede da queste cose. E non c’è alcuna differenza qualitativa con la Lega o in genere la destra, che chiede misure ancora meno incisive sull’economia reale, come la “sospensione delle tasse per due mesi” (Salvini, quello che prima voleva “chiudere tutto” e poi ha strepitato per “riaprire tutto”).

Sappiamo solo criticare ma non abbiamo proposte? Non proprio.

Sul piano sanitario anche noi sappiamo di doverci affidare alla scienza, non alle suggestioni. E facciamo notare che nel primo paese dove il virus si è manifestato le restrizioni sono state anche più severe, e scontavano un fortissimo impatto negativo sull’economia. Ma in quel caso è evidente l’operare di una logica inoppugnabile: prima stronchiamo il virus, poi pensiamo a rilanciare l’economia.

Qui invece si cerca una mezza via (non una via di mezzo), per cui si continua a produrre (e ad esporsi al contagio lavorando), mentre su tutta un’altra serie di occasioni sociali si lancia l’allarme.

In questo modo – è una previsione facile – non si limita più di tanto la diffusione del virus e non si impedisce la frenata drastica delle attività economiche.

Per il primo obbiettivo bisognerebbe probabilmente essere più restrittivi, anche a costo di scontare perdite economiche immediate più pesanti ma limitate nel tempo. Non è difficile capire che se questa situazione si aggrava e va avanti per molti mesi il danno sarà catastrofico per buona parte dell’economia italiana, altamente dipendente ora da esportazioni e turismo.

Ma essere più restrittivi sul piano sanitario significa prepararsi a investire (non a spendere) molto di più una volta superata la crisi da coronavirus. E su questo è bene essere molto chiari. Investire in settori produttivi di ricchezza, industriali e non, a cominciare dalla nazionalizzazione delle imprese già in crisi o in chiusura (le multinazionali vanno e vengono, come i capitali finanziari), e soprattutto nei settori strategici.

All’interno delle attuali regole europee e “di mercato” questa possibilità non esiste. Ce lo ricordano ogni giorno, da tutte le tv, i Cottarelli, le Fornero o i Giannini. Anche se si sforano ora i limiti del deficit (su questo l’Unione Europea, con tutti gli Stati di fronte allo stesso problema, non farà difficoltà), a crisi sanitaria conclusa ci sarà di nuovo e come sempre l’indicazione di “rientrare nei parametri”, tagliando tutto ciò che si può, dalle pensioni all’istruzione e – non paradossalmente – la stessa sanità.

E non sarebbero più gentili “i mercati finanziari”, disponibili ora a prestare i fondi necessari all’emergenza ma pronti poi a chiederli indietro con forti interessi…

Il vero punto chiave sta infatti nell’impossibilità, a regole attuali, di emettere liquidità come singolo Paese. Questo vincolo, inizialmente autoimposto fin dal 1981 – quando Nino Andreatta separò la Banca d’Italia dal ministero del Tesoro, impedendo per sempre a via XX Settembre di partecipare alle aste dei titoli di stato (in cui, comprando, faceva azare il prezzo di vendita dei titoli e diminuendo di conseguenza gli interessi sul debito) – è il primo cappio al collo che impedisce qualsiasi iniziativa di investimento pubblico.

Così, mentre la Cina e altri Paesi liberi di programmare e investire potranno provare a recuperare il tempo che stanno perdendo sul fronte del coronavirus, all’Italia e agli altri membri della UE toccherà subire gli effetti di un virus assai più invalidante: quello dell’austerità.

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